I gilet gialli, i taxisti, i separatisti, i maestri, le femministe, i licenziati, i consumatori, la gente, in generale, scende in piazza nelle città europee. A volte in modo ordinato e rispettoso, a volte in modo tumultuoso. Combattono con le forze dell’ordine, attaccano i negozi, bruciano i cassonetti, vandalizzano gli arredi urbani, o semplicemente sfilano sventolando bandiere e gridando slogan non sempre rispettabili.

In Francia, in Spagna, in Italia, in tanti altri Paesi, la politica è scesa in piazza. Quelli che attaccano il sistema e coloro che lo sostengono si trovano talvolta faccia a faccia, separati solo da una fila di poliziotti che sembrano arrivati dallo spazio: caschi scintillanti, uniformi come armature, visiere a specchio e scudi di gomma dura. Il dibattito politico abbandona i parlamenti, si rifugia a volte in tv, ma soprattutto sui social network, pieni di calunnie, insulti, bugie, villanie e, infine, prende la via della piazza.

Non importa che si tratti del futuro delle pensioni, della violenza di genere, del nome della Macedonia, dell’indipendenza della Catalogna, o di qualsiasi altra richiesta. La democrazia rappresentativa non è più quella del suffragio, ma quella dell’indignazione e della protesta. Il sogno del ’68 è sepolto dalla rabbia, la richiesta dall’urlo, la rivoluzione dalla rivolta. Benvenuti nella democrazia diretta, che nasconde il suo volto sotto il velo politicamente corretto della partecipazione.

Da dove nasce questo fervore populista che ci conduce alla massima velocità verso il nulla? Tutti puntano il dito contro la crisi finanziaria del 2008. A partire da lì le economie dei Paesi industrializzati sono crollate e i governi sono dovuti intervenire. Anche negli Stati Uniti, il paradiso del liberalismo economico, la Casa Bianca ha implementato piani di salvataggio che hanno coinvolto l’amministrazione patrimoniale dello Stato. Prima del disastro, alle riunioni del G20 leader di ideologia diversa come Gordon Brown o Sarkozy avevano proposto: bisogna riformare il capitalismo, dare regole alle agenzie di rating, eliminare i paradisi fiscali…

Parole al vento. Dopo gli aggiustamenti necessari, le economie nazionali sono tornate a crescere e così la disuguaglianza. La crescita nell’ultimo decennio è avvenuta a scapito di svalutazioni interne, perdita del potere d’acquisto dei salari, riforme dei mercati del lavoro, e un’ascesa inarrestabile del capitalismo finanziario internazionale che, a detta di molti economisti, ha portato il debito del mondo a livelli inaccettabili.

Orfano delle riforme, il capitalismo viene attaccato dalle vittime del processo: le classi medie che hanno visto ridursi la loro capacità di acquisto, mentre le multinazionali hanno accumulato benefici, è emersa la corruzione dei governi e i movimenti migratori dei disperati della Terra sono stati visti come un minaccia ai lavori precari e al mantenimento dello Stato sociale nella vecchia Europa.

Anticapitalismo, anti-globalizzazione e anti-corruzione: questa è la triade che alimenta la protesta contro il sistema: le nuove tecnologie sono la scintilla che accende la miccia.

La democrazia rappresentativa presuppone la delega dei cittadini ai loro rappresentanti, in modo che prendano le opportune decisioni a beneficio della comunità. Richiede un’opinione pubblica preparata e informata, in grado di votare liberamente e con criterio.

Oggi l’ecosistema dell’informazione è contaminato da tutti i tipi di agenti infettivi. I social network hanno causato una pandemia di disinformazione e menzogne, stimolati da robot opportunamente programmati per quel compito.

Più del 50 per cento dei tweet che circolano su Internet sono il risultato dell’azione delle macchine, non degli umani. I leader della protesta chiamano alla raccolta nel centro delle capitali; non è la rivoluzione, perché tutti hanno troppo da perdere, ma la rabbia dilaga.

Incalzati dal populismo politico e mediatico, i partiti e i mezzi d’informazione tradizionali soccombono al contagio. La democrazia della rabbia, della squalificazione e dell’insulto sostituisce il dibattito: anche la stampa scritta ne è contaminata e molti giornalisti abbandonano la loro vocazione di testimoni della storia per cercare di diventarne protagonisti.

La paura del futuro è regola diffusa in tempi di cambiamento. La rivoluzione tecnologica ha già sconvolto le fondamenta della democrazia e dell’economia, ma il peggio deve ancora arrivare. Non viviamo solo un’era di cambiamenti, ma un cambio di era.

La società digitale, la robotizzazione e l’intelligenza artificiale ci annunciano un mondo per il quale non eravamo preparati. Alcuni ricordano la crisi finanziaria degli Anni 30 come un precedente da prendere in considerazione. Il disastro economico spinse il mondo al terrore politico: nazionalismo, fascismo, xenofobia e… guerra.

È tempo di demagoghi e opportunisti. Non è un’iperbole dire che la democrazia è minacciata. Per difenderla, dovrà essere riformata. Al più presto.

Juan Luis Cebrian, giornalista e scrittore spagnolo        La Stampa  14 febbraio 2019

 

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