Mi è capitato di trovarmi in Paesi in cui stava per avvenire un colpo di Stato. Grecia, 1967, Perù 1990. Vedi soldati di certi reparti speciali (divise e dotazioni diverse) presidiare certi punti ritenuti cruciali, vedi masse di soldati in silenzio e in ordine in strade laterali. Vedi i carri armati, a volte in lunghe file, come per occupare un Paese straniero. Questo ti colpisce se ti accade di vedere il Paese in cui sta per compiersi un colpo di Stato: quel Paese è diventato nemico di se stesso. O, se volete, quel Paese ha generato un comportamento così intollerabile che bisogna rimuoverlo con le armi, come un invasore.

Da quel momento (se il colpo ha successo) nasce l’ossessione per la sicurezza. Per esempio in Italia i porti sono chiusi, e le famiglie si dotano di spray urticante.

Ogni persona, parola, comportamento e oggetto, d’ora in poi sarà controllato e soggetto a limitazione o eliminazione. Questa alterazione del comportamento politico, umano e sociale non va via da sola. Tanto più quando uno dei suoi sintomi è di mettere a tacere il Parlamento decidendo e annunciando altrove ogni evento che conta.

Deve accadere qualcosa di drammatico, con qualcuno che si sacrifica (anche se poi si darà tutto il merito al popolo e alla sua voglia di libertà) per rovesciare il governo del colpo. In Venezuela, per esempio, non è ancora riuscito, e neppure in Ungheria, nonostante mobilitazioni accanite e atti di ribellione che indicano disperazione.

Avete notato che gli ultimi due Paesi citati (Venezuela e Ungheria) ci raccontano una storia diversa dai carri armati, una storia che ci riguarda. Tutti e due questi governi, e partiti e apparati e burocrazie e giornalisti al seguito, occupano e dominano il loro Paese come se lo avessero espugnato, in base al voto popolare.

Possono dunque entrare in azione sbandieratori in grado di gridare a ogni oppositore, per quanto legittimo che, se vuole parlare, deve prima farsi eleggere. Lo dicono sapendo che, da un lato, la macchina elettorale è già nelle mani di un tipo di consenso bloccato (ora tenterò di dire perché). E, dall’altra, sono appena entrati in funzione i meccanismi, studiati con cura (Cinque Stelle) o improvvisati con impetuosa bravura (Lega) che puntano a obiettivi essenziali: spaccatura del Paese ed esclusione di qualunque opposizione.

Perché ho detto che “il consenso è bloccato”? La ragione è negli ingredienti che sono stati usati per ottenere un consenso largo che tende ad allargarsi. Uno degli ingredienti è la dichiarazione di infamia per tutti (tutti) coloro che a qualsiasi titolo esistevano e agivano “prima” (da Previti a Gino Strada, da Dell’Utri a Saviano).

Questo espediente, oltre a salvare il peggio facendolo uguale al meglio, crea un vasto spazio libero per i nuovi venuti. Infatti elimina le domande sulla preparazione, grado di cultura e competenza. Essere nuovi è l’unico criterio anche a costo del ridicolo provocato dalle inesperte prestazioni.

Il secondo ingrediente è la libertà di disprezzo e dunque di vendetta per tutto quello che “gli altri” hanno fatto prima. Liste anche grandi di legittima protesta e denuncia politica si saldano con immense liste private di ingiustizie patite a qualsiasi titolo e per qualsiasi ragione, incluse le mancate assunzioni, i pagamenti ingiusti, i fallimenti scolastici, le cure mediche mal riuscite, il tutto immerso in un mare di disonestà globale, che è l’intero pianeta del “prima”.

Ecco perché il voto di vendetta durerà a lungo. Il cuore del dramma però non sta nel disputare quanto sia fondata la rabbia. Il dramma dipende dall’uso apocalittico e totale che è diventato il gioco di governo, tra piazze e balconi, con il ministro dell’Interno che si esibisce con le stellette militari sulla maglietta o con la giacca della polizia, due trovate che inducono a credere che la politica sia la polizia e che la polizia sia la politica.

Come sappiamo questo governo, senza carri armati, ma ricco di trovate estranee alla Costituzione e alla legge, è formato da due partiti disuguali e diversi. E se uno ama comparire in divisa, l’altro preferisce annunciare le sue vittorie (che non sono dell’Italia ma del partito) dal balcone del palazzo di governo, che a Roma ha una sua storia.

Diciamo che si tratta di una grande imitazione del potere assoluto, che sta al fascismo come il circo al teatro. Ma è evidente che non finirà tanto presto.

Furio Colombo       Il Fatto  23 dicembre 2018

 

 

L’aula è inutile. Parlamentari estratti a sorte

La marcia di avvicinamento alla dissoluzione della nostra democrazia rappresentativa procede a tappe forzate. Tanto da rendere la provocazione lanciata sei mesi fa da Beppe Grillo - sostituire le libere elezioni con il sorteggio dei parlamentari – uno sbocco logico. La tappa più recente, il metodo con il quale è stata confezionata la manovra economica del governo gialloverde, schiacciando il parlamento con ciò che per Emma Bonino è un «rullo compressore sulle istituzioni».

Si potrebbe eccepire che i rappresentanti del popolo nelle istituzioni non hanno sempre dato il buon esempio agli elettori, soprattutto quando era in ballo il bilancio dello Stato. Indimenticabili le finanziarie finite preda del deprecato assalto alla diligenza, con marchette (e vendette) che fioccavano da tutte le parti. Nessuna nostalgia, ovvio.

Ma quando si criticava con ferocia quel mercato indecente era per riportare l’azione del Parlamento alla difesa dell’interesse generale, non perché fosse abolita del tutto com’è accaduto ora.

Che poi la differenza è solo nel fatto che le marchette (e le vendette) si consumano a monte, cioè nelle stanze del governo, anziché a valle, in Parlamento. E finisce sempre allo stesso modo: con il voto di fiducia al maxiemendamento, un articolo e centinaia di commi spesso indecifrabili.

Vi chiederete: dov’è la differenza? C’è, ed è profondissima. Si sta scrivendo l’epitaffio di un modello di democrazia, l’idea che l’identità, il ruolo, la storia e la personalità di chi è chiamato unicamente a spingere un pulsante siano indifferenti. Fino a superare del tutto il principio che un rappresentante del popolo debba avere qualità e competenze.

Così che per «rendere il nostro parlamento veramente rappresentativo della società, il che significherebbe la fine dei politici e della politica come l’abbiamo sempre pensata» (Grillo dixit). L’unica strada resta l’estrazione a sorte dei rappresentanti. Come per le giurie popolari in Corte d’assise, le commissioni di concorso, i commissari per le gare d’appalto…

A dirla tutta, la cosa non è affatto nuova. Venticinque secoli fa uno dei padri della democrazia greca, tal Clistene, aveva introdotto un sistema elettivo basato proprio sul sorteggio. Ferma restando, però, l’esistenza di un meccanismo per impedire che la stanza dei bottoni venisse occupata dagli incompetenti.

E la tesi dell’estrazione a sorte dei rappresentanti del popolo è stata comunque a lungo discussa nei secoli, fino ai giorni nostri. Bisogna pure dire che i nostri politici ce l’hanno messa tutta per favorire quel “rullo compressore”.

L’attività legislativa delle Camere, peraltro sommerse letteralmente dai voti di fiducia, è sempre più ridotta alla ratifica di decreti legge governativi. Raramente le leggi di iniziativa parlamentare arrivano in fondo, e il dibattito è sempre più povero anche a causa della crescente mediocrità degli eletti. La morte della formazione politica eletti.

La morte della formazione politica è stata anche la conseguenza di leggi elettorali sciagurate, basate sulla cooptazione e la fedeltà ai capi di partito o di corrente. La degenerazione viene da lontano e ha precisi responsabili. Deflagrando però durante il decennio di Silvio Berlusconi: il quale, pur non avendo mai proposto il sorteggio, avanzò un giorno l’idea di far votare le leggi soltanto ai capi dei gruppi parlamentari. Una scorciatoia, per evitarsi la noia delle lungaggini democratiche.

Comunque, in attesa di passare dalle elezioni all’agognato sorteggio, i fautori della cosiddetta democrazia diretta non se ne stanno con le mani in mano. E hanno avviato una riforma del sistema referendario che ha l’obiettivo di mettere “il popolo” in competizione con il parlamento dei suoi stessi rappresentanti. Inizieranno da qui.

Sergio Rizzo      Repubblica  22 dicembre 2018

 

Vedi:  Calamandrei e il Parlamento

La Costituzione e il governo stile executive

La democrazia digitale e i rischi di manipolazione


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