Il “No” al referendum ha a che fare con l’evidenza che “il capo mentiva” sulle meraviglie delle riforme. Ironia che Conti abbia detto “quando un fiorentino dice che si ritira…”

Le ragioni della vittoria del no al referendum costituzionale del 2016 vanno certo individuate nell’implosione del nesso (costituzionalmente aberrante) del ‘governo costituente’: dove l’avversione per il governo si è rovesciata contro le riforme da esso propugnate. Ed è naturale che in un Paese in cui il 28,7% della popolazione è a rischio di povertà, dove il 48,9% non è in grado di fare una settimana di ferie all’anno e in cui la disoccupazione giovanile viaggia intorno al 40% il governo divenga un bersaglio.

Ma la sconfitta del sì va letta anche sul piano del discorso politico, e della psicologia di massa: è stato rigettato il modello plebiscitario del capo che si rapporta direttamente con la folla. Non perché esistano radicati anticorpi: che purtroppo sono, al contrario, assai scarsi. Quella svolta è stata rifiutata perché è apparso evidente – a un livello direi quasi pre-razionale – che il capo mentiva: è questo che la ‘gente’ ha ‘sentito’.

Una menzogna che è stata platealmente confermata, ex post, dal rifiuto di Matteo Renzi di ritirarsi dalla politica, al contrario di ciò che aveva più volte solennemente promesso. Nell’immaginario collettivo italiano Renzi è ormai, indelebilmente, un mentitore: e davvero non c’è appello se a sancirlo è perfino il santuario italiano del senso comune, e cioè il Festival di Sanremo, dove il presentatore fiorentino Carlo Conti ha ironizzato sul proprio ritiro dalla conduzione futura del festival dicendo: “Quando un fiorentino dice che si ritira…”.

È qua che sta la vera ragione dell’irreversibilità della sconfitta renziana, ed è ancora da questo nucleo fondamentale (dire o non dire la verità) che si può delineare un altro tipo di sinistra: più in generale, un altro tipo di politica. In Verità e politica Hannah Arendt racconta “un aneddoto medioevale (che) illustra quanto può essere difficile mentire agli altri senza mentire a se stessi. È una storia che narra ciò che accadde una notte in una città sulla cui torre di guardia una sentinella era in servizio giorno e notte per avvertire la popolazione dell’approssimarsi del nemico. La sentinella era un uomo incline agli scherzi, e quella notte suonò l’allarme giusto per far prendere un piccolo spavento alla popolazione della città. Il suo successo fu travolgente: tutti si precipitarono alle mura, e l’ultimo a precipitarcisi fu la sentinella stessa. Il racconto indica in quale misura la nostra apprensione della realtà dipende dalla nostra condivisione del mondo con gli altri, e quale forza di carattere è richiesta per attenersi a qualcosa, sia essa la verità o una menzogna che non è condivisa. In altre parole, più un bugiardo ha successo più è probabile che egli cadrà vittima delle sue stesse fabbricazioni”.

È ciò che, con ogni evidenza, è accaduto a Matteo Renzi: così sprofondato nel suo storytelling di un “Italia che riparte” – “passo dopo passo”, grazie a uno Sblocca Italia e attraverso una Buona Scuola – dall’aver finito col crederci lui stesso, perdendo ogni contatto con il Paese reale, e con il suo profondissimo malessere.

Ebbene, uno degli effetti della questione di verità in cui si è tradotto il referendum è che molti cittadini e alcune forze politiche si sono rivolti agli intellettuali impegnati nel fronte del no sollecitando una loro diretta partecipazione alla politica attiva. Invero, non è una novità: è anzi frequente che chi cerca di esprimere una critica radicale allo stato delle cose si senta chiedere – per fiducia, o non di rado per sfida – di impegnarsi a cambiarlo in prima persona.

E spesso la stessa richiesta viene rivolta ad associazioni critiche: quante volte, per esempio, si è suggerito – dall’esterno o dall’interno – che Libertà e Giustizia si presentasse alle elezioni con una propria lista, trasformandosi di fatto in un partito? Ma esistono molti modi per fare politica: e ricordare che cercare e dire la verità è uno di quelli. È questa, credo, la vera risposta a chi chiede che gli intellettuali facciano politica: e cioè che la fanno già. La fanno prendendo la parola in pubblico: la fanno da cittadini che vivono con pienezza la propria cittadinanza.

Ciò che, mi pare, oggi non sia più attuale è la possibilità stessa di un intellettuale ‘organico’ (per riprendere la celeberrima definizione gramsciana) a un singolo partito. Questo non vuol dire non prender parte: tutt’altro. Personalmente credo che, per esempio, la difesa della democrazia sostanziale non sia divisibile dalla questione dell’uguaglianza, e che la parte da cui schierarsi debba essere necessariamente quella dei più ‘poveri’ (materialmente e culturalmente).

Ma un conto è essere partigiani di determinati valori (la democrazia, l’eguaglianza) o di una classe sociale (i poveri, i deboli, i senza diritti, gli scartati…), altro conto è entrare in un partito organizzato: cioè in una concrezione di potere chiamata inevitabilmente a servirsi della propaganda, per persuadere. Tutte cose difficilmente compatibili con la libertà della critica e la ricerca della verità.

E, infatti, la politica praticata dagli intellettuali è – per propria natura – una “politica diversa”, per riprendere una espressione che Norberto Bobbio ha usato in un’altissima riflessione, che forse è la risposta più concreta all’eterna questione del rapporto tra intellettuali e potere: “Solo chi crede che la politica non sia tutto giunge a convincersi che la cultura svolge un’azione a lunga scadenza, anch’essa politica, ma di una politica diversa… Solo chi crede in un’altra storia – vi crede perché la vede correre parallelamente alla storia della volontà di potenza –, può concepire un compito della cultura diverso da quello di servire i potenti per renderli più potenti, o da quello, ugualmente sterile, di appartarsi e di parlare con se stesso. Io personalmente credo, ho sempre creduto, in quest’altra storia”.

Dire la verità vuol dire fare politica, credendo in “un’altra storia”: “una politica diversa”, di cui continuiamo ad avere una vitale necessità. Perché la questione è molto semplice: un futuro diverso dalla continuazione del presente non potrà che essere costruito da una “politica diversa”.

Tomaso Montanari, presidente dell’Associazione Libertà e Giustizia,          Il Fatto   16 maggio 2017

 

Il libro:  Tomaso Montanari,  Cassandra muta. Intellettuali e potere nell’Italia senza verità,  ed. EGA   2017,   € 12

 

vedi:  La guerra alla verità

Referendum: non sprechiamo quel no

Costituzione, ecco perché bisogna salvarla

L'industria culturale? E' acritica.

Non c è più posto per la verità


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