Un tempo l’ironia è stata sovversiva ma ora è un’arma per demolire tutto evitando il merito e la complessità. Ci servirebbero più serietà e ardore. David Foster Wallace chiedeva: una volta evidenziati ironicamente i problemi che si fa? Solo mettere in ridicolo la realtà?

Nel primo dei due saggi contenuti in L’ordinario e il sublime, Adam Zagajewski riflette sul tentativo di Mann di opporre alla violenza fascista e alla sua mitologia arcaica una forma di ironia «non del tutto inerme, non completamente astratta». E aggiunge che se questo compito aveva un valore preciso negli anni Trenta, oggi si è deformato quasi completamente. Secondo il grande poeta polacco, «l’ironia è una variante piuttosto perversa della certezza». Si è così involuta dal suo uso originario e socratico da diventare spesso una mossa reazionaria: «Non è più un’arma puntata contro la barbarie del sistema primitivo che stava trionfando nel cuore stesso dell’Europa, ma esprime la disillusione per il crollo delle aspettative utopistiche […].

Certi autori usano l’ironia per criticare la società consumistica, altri continuano a lottare contro la religione, altri ancora contro la borghesia. Talvolta l’ironia esprime anche qualcosa di diverso: lo smarrimento in un mondo pluralistico. A volte nasconde solo una certa povertà intellettuale: se non sappiamo cosa fare, di sicuro la cosa migliore è essere ironici. Poi si vedrà».

«Poi si vedrà»: non abbiamo coordinate precise sulla mappa, quindi nel frattempo tanto vale farci una risata. Sia inteso, Zagajewski non banalizza il discorso. Rivendica il bisogno di sentimenti alti e impegnativi, ricordando però la necessità di un’ironia correttiva che impedisca di rendersi elitari.

Il suo elogio del concetto platonico di metaxu — l’essere collocati in mezzo, fra materialità e trascendenza — si traduce così in un richiamo alla misura. E tuttavia il titolo del saggio è In difesa dell’ardore. Perché la nostra epoca è rimasta prigioniera di un unico polo, quello dell’ironia.

Aggiungo: l’ha elevata a canone attraverso la sua forma più becera — il sarcasmo. Non amo ricorrere all’etimologia per inquadrare un problema, ma in questo caso è difficile resistere: il termine deriva dal greco sarkasmós, a sua volta figlio di sarkázō, che significa «dilaniare le carni». In tempi poveri di ideali e colmi di rabbia sociale, il cinismo vince con facilità sull’empatia.

E il sarcasmo non è che una sua variante: può sembrare innocua, ma nasconde un sottile esercizio di violenza. È possibile mettere in ridicolo qualunque cosa, e lo si fa con gusto. Chi ragiona e dubita è sospetto, perché non partecipa al grande spettacolo della risata senza fine.

Non è un tema nuovo, ovviamente. David Foster Wallace aveva preconizzato questa distorsione dell’ironia più di vent’anni fa nel suo celebre saggio E Unibus pluram: «Chiunque abbia l’eretica sfacciataggine di chiedere a un ironista che cosa sostiene veramente finisce per sembrare una persona isterica o pedante. E in questo sta l’oppressione dell’ironia istituzionalizzata, di una rivolta troppo riuscita; la capacità di interdire la domanda senza occuparsi del suo oggetto, nel momento in cui viene esercitata, non è altro che dittatura».

Il punto è che la situazione non è affatto cambiata; anzi, è peggiorata. Rispetto al 1996, il modello dittatoriale della delegittimazione ghignante è stato affinato politicamente (da Berlusconi a Trump) e sdoganato moralmente, fino a divenire una sorta di riflesso incondizionato. Una via d’uscita rapida al conflitto, che anestetizza e rende insensibili alla complessità. Ogni cosa può essere liquidata in un gigantesco LOL: ma dietro tutta questa sagacia si nasconde una forma un po’ meschina di potere. Il potere di prendere in giro chiunque, esercitando un diritto ormai riconosciuto: vendicarsi socialmente, esprimere il proprio rancore sotto la maschera della risata caustica. È un tema trasversale, contro cui è bene non mostrarsi indignati o sentirsi intoccabili, perché riguarda tutti: il battutaro su Twitter esattamente come la presunta élite intellettuale o politica.

Certo, questo ricorso continuo all’ironia ha qualcosa di appagante: se do dell’imbecille a qualcuno, troverò sempre un terzo disposto a darmi di gomito. Sbeffeggiare pubblicamente gli altri non è mai stato così semplice, e può sembrare liberatorio. Anche perché non c’è difesa alcuna contro il sarcasmo: che io reagisca con una battuta o cercando di argomentare, il mio avversario può semplicemente continuare a darmi dell’imbecille.

Conosciamo tutti questa dinamica. L’errore grave — una vera pigrizia del pensiero — sta nel ritenerla un’arma efficace contro le storture del sistema o gli abusi di potere. Nella sua Critica della ragion cinica, il filosofo Peter Sloterdijk avanzò l’ipotesi che il sarcasmo, in apparenza tanto contundente e rivoluzionario, sia invece del tutto complice al capitalismo avanzato. Viene assunto quale modalità base del dissenso, ma in realtà ne seppellisce la carica sovversiva: perché, come diceva ancora Foster Wallace, una volta evidenziati ironicamente i problemi, che vogliamo fare? «A quanto pare, vogliamo solo continuare a mettere in ridicolo la realtà».

Forse sto esagerando. Forse siete già pronti a liquidare questo pezzo con un paio di battute. Ma continuando a pompare le nostre opinioni con gli steroidi del sarcasmo, a considerare la serietà e il dialogo razionale — e sì, persino l’ardore — come qualcosa di noioso o inutile, allora moriremo prendendoci tutti in giro.

Giorgio Fontana      Il Corriere della Sera  3/2/2017

 

vedi:  Se questo è Gaber

La passione ribelle

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