Hartmut Rosa. Il sociologo della “accelerazione sociale” spiega perché la velocità non migliora più la nostra vita ma è diventata una fonte di ansia. Intervista di Claudio Gallo

Hartmut Rosa, 50 anni fra due mesi, sociologo tedesco dell’università di Jena, è celebre per gli studi sui mutamenti sociali attraverso l’ «accelerazione sociale», come lui ha definito l’imperativo della velocità che pervade la società fin dalla modernità. Einaudi ha appena pubblicato il suo Accelerazione e alienazione, per una teoria critica della tarda modernità (pp X-125, € 18).

 

Professor Rosa, oggi si ha la percezione che l’orologio giri sempre più in fretta, come spiega questo fenomeno?
«Naturalmente, il tempo dell’orologio è sempre lo stesso. La percezione dell’accelerazione è un fenomeno psicologico che però ha delle cause sociali. Mettiamola così: il fatto che sentiamo di avere poco o molto tempo dipende dalla relazione del tempo a nostra disposizione con il tempo richiesto dalla lista delle cose da fare. Il problema della nostra società è che questi due fattori coincidono sempre meno, per riuscire a fare tutto servirebbero 48 ore al giorno. Così manca il tempo e noi abbiamo l’impressione che l’orologio scorra più in fretta. Questa sensazione ha anche un’altra causa: quando abbiamo una giornata eccitante il tempo vola via, ma pensandoci alla sera sentiamo che è stata una giornata molto lunga e ricca. Al contrario, quando abbiamo una giornata noiosa, spesa magari in una sala di attesa, il tempo non passa mai. Tuttavia, quando andiamo a letto e ci ripensiamo sembra che la giornata sia stata corta, inconsistente. Questo si chiama il paradosso del tempo. Sentiamo che la giornata è stata lunga quando lascia molte tracce nella memoria. Nella vita della tarda modernità abbiamo perso la capacità di ”appropriarci” delle nostre esperienze, facciamo un mucchio di cose che non ci coinvolgono veramente, alla sera abbiamo dimenticato tutto. Così sentiamo che il tempo passa velocemente».

E’ possibile individuare l’inizio dell’accelerazione del tempo nella storia?
«E’ difficile identificare un momento preciso, perché nel fenomeno convergono numerosi processi. Ma non c’è dubbio che a questo riguardo il XVIII secolo sia stato cruciale. Il cambiamento non è stato prodotto dalle nuove tecnologie ma al contrario la macchina a vapore, la ferrovia e la rivoluzione industriale furono risposte a un cambiamento di mentalità. Si cercava di andare più in fretta già prima delle nuove invenzioni, ad esempio cambiando più spesso i cavalli. Nel XVIII secolo ci fu un mutamento nel modo in cui la società si stabilizzava: da allora in poi per mantenere la stabilità bisognerà crescere: attraverso lo sviluppo economico, l’accelerazione tecnologica, l’innovazione culturale. Dopo il XVIII secolo l’accelerazione è necessaria per la stabilità sociale».

Perché le nostre vite vanno sempre più un fretta eppure ci sembra spesso di non muoverci affatto?
«Molti pensano che l’ossessione per la velocità e i cambiamenti intorno a noi siano fenomeni superficiali, che sotto ci sia una totale inerzia. Sembra che si stia andando ”da nessuna parte ma più in fretta” per parafrasare il titolo di un brano rock (Nowhere Fast, ndr). A partire dal XVIII secolo fino a non molto tempo fa, l’accelerazione, la crescita e l’innovazione erano percepiti come un progresso. L’accelerazione sociale era considerata un movimento della storia: attraverso la crescita economica si poteva vincere la scarsità materiale, attraverso tecnologie più veloci la scarsità di tempo, e grazie alla scienza e alla politica si poteva ottenere una vita migliore e più libera. Nel XXI secolo però il background culturale è cambiato radicalmente: l’accelerazione non serve più al progresso: è necessaria per non collassare. Se l’Italia, la Germania o la Grecia non accelerano, non possono mantenere la stabilità sociale, crolla lo status quo: la gente perde il lavoro, le fabbriche chiudono, diminuisce la ricchezza e il sistema politico è delegittimato. Per la prima volta nella storia occidentale ci si affanna perché i figli non abbiano una vita peggiore dei genitori. La gente sente che anno dopo anno deve andare più fretta soltanto per restare dov’è, come un criceto sulla ruota. La vita non sarà sempre meglio ma, al contrario, sempre più dura. Questa è per me la condizione postmoderna: non andiamo più verso un avvenire radioso ma corriamo per non cadere nell’abisso alle nostre spalle».

Alcuni autori accusano di questi mali il capitalismo, secondo lei invece le forze che guidano l’accelerazione sociale sono al di là del capitalismo…
«E’ vero che non do la colpa di tutto al capitalismo ma ciò non significa che il capitalismo non abbia un ruolo centrale nell’accelerazione. Il capitalismo è uno dei primi motori dell’accelerazione sociale: il tempo diventa merce rara, è denaro come diceva Benjamin Franklin. Essere più veloci degli altri è una necessità strutturale nel modo di produzione capitalistico. Sono convinto che senza cambiamenti nell’economia non usciremo mai dal ciclo dell’accelerazione. Il mercato e la competizione devono essere reintegrati nei nostri stili di vita sociali e culturali, non il contrario, devono essere limitati attraverso nuove forme di economia democratica. Penso a un reddito di cittadinanza legato a un sistema fiscale globale. Tuttavia il capitalismo non è l’unico colpevole. Ci sono altri fattori come la logica delle differenze funzionali, la divisione del lavoro e l’orientamento culturale che vede nella velocità una risposta al problema della finitudine e della morte: se vivo a una velocità doppia è come se vivessi due vite e così via. Credo che alla base del problema della velocità ci sia un orientamento culturale sbagliato (o almeno molto problematico) verso la vita e il mondo».

L’accelerazione sociale produce alienazione, come sfuggire a questa impasse?
«E’ impossibile lasciare la società così com’è e semplicemente rallentare. Non credo troppo alla Decelerazione o alla Slow Life, le risposte individuali non possono funzionare. L’alienazione si può superare solo con un nuovo modo di relazionarsi con il mondo. Potremmo chiamarlo ”Risonanza”. La Risonanza è l’opposto e l’alternativa all’alienazione. Noi non siamo alienati da un gruppo di persone (la famiglia, ad esempio) o da una situazione sociale (l’ambiente di lavoro) quando c’è una relazione risonante, attiva tra noi e loro. In quel caso ci sentiamo attivi, connessi ma anche capaci di relazionarci con gli altri. La Risonanza tuttavia non è uno stato emotivo: è una forma di rapporto e una caratteristica della società. Dunque per far sì che il mondo sia più risonante dobbiamo cambiare sia il nostro atteggiamento sia le strutture del nostro mondo sociale ed economico. Un’economia democratica, il reddito di cittadinanza e l’idea di Risonanza potrebbero essere componenti essenziali per un tale cambiamento».

La Stampa    5.6.2015

 

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