Racconta Norberto Bobbio che durante la guerra a Padova, dove allora insegnava, nel bar che era solito frequentare apparve un avviso che proibiva l’ingresso agli ebrei: «“Adesso strappo quel cartello”, dissi fra me e me. Ma sono uscito senza averlo fatto. Non ne avevo avuto il coraggio. Quanti atti di viltà, di cosciente viltà, come questo abbiamo commesso allora?».

Nel dopoguerra, per lungo tempo, l’inclinazione all’autoassoluzione da parte degli italiani, nel quadro più generale della «defascistizzazione» del Paese, attraverso la raffigurazione del regime fascista come dittatura da «operetta», ha portato all’errata conclusione che le leggi razziali fossero state disapprovate dai più e non fossero mai state davvero applicate, o quantomeno non in modo scrupoloso ed efficace. Così come nessuna colpa sarebbe imputabile agli italiani per la drammatica efficacia della Shoah nella penisola, con oltre 7.500 vittime.

11 novembre 1938

È molto diversa la conclusione cui giunge la ricerca di Mario Avagliano e Marco Palmieri, intitolata Di pura razza italiana. L’Italia «ariana» di fronte alle leggi razziali (Baldini & Castoldi), che esce oggi in libreria, proprio nei giorni in cui cade il 75° anniversario della promulgazione dei provvedimenti antiebraici. I due autori hanno scandagliato le relazioni dei fiduciari della polizia politica e del Minculpop, delle spie dell’Ovra, dei prefetti e dei funzionari del Pnf sullo «spirito pubblico», oltre agli atti e alla corrispondenza dei burocrati locali e ai diari e alle lettere dei protagonisti dell’epoca. Il risultato è una cronaca impietosa, una sorta di «romanzo criminale» dell’antisemitismo italiano.

Una sequela di documenti, prese di posizione, episodi razzisti, che definitivamente oscura quel mito degli «italiani brava gente» in cui per tanti decenni ci siamo riconosciuti per non fare i conti con le pagine nere della nostra storia.

Dal caleidoscopio delle reazioni della popolazione nel periodo 1938-1943, analizzato da Avagliano e Palmieri in pagine emozionanti, che colpiscono e indignano, risulta che gli italiani di «razza ariana» assistettero o presero parte all’antisemitismo di Stato in vario modo: quali persecutori, propagandisti, teorici, complici, delatori, profittatori, spettatori più o meno indifferenti (la categoria dei bystanders , per utilizzare l’espressione di Raul Hilberg, uno dei massimi studiosi della Shoah) e, in misura minoritaria, come oppositori o solidali (in alcuni casi potremmo dire Giusti).

Soprattutto all’inizio, il tema delle leggi razziali, introdotte in Italia dal regime fascista tra il settembre e il novembre del 1938, non suscitò grandi passioni né forti dissensi. La cifra prevalente, guardando alla maggioranza della popolazione, fu senz’altro l’indifferenza.

Ma, come scrivono i due autori, «il “non vedo, non sento e non parlo” praticato dalla maggioranza degli italiani non si può però valutare con il metro semplicistico della pusillanimità. Al dunque esso si tramutò in connivenza e adesione di fatto, poiché contribuì a realizzare l’obiettivo della persecuzione, vale a dire l’isolamento, la separazione e l’esclusione degli ebrei dal resto della società».

Dopo una fase iniziale nella quale non mancarono dubbi, incomprensioni e critiche, sia pure sottovoce, che videro protagonisti diversi antifascisti (in particolare gli esuli in Francia), parte del clero e dei cattolici (tradizionalmente divisi tra una corrente filogiudaica e una antisemita) e le classi meno abbienti o meno istruite, il consenso verso la politica razziale del regime crebbe progressivamente presso tutti gli strati sociali e anche nel mondo cattolico di base.

In particolare il sentimento antigiudaico fece registrare un consistente incremento nei primi due anni di guerra, nei quali la propaganda fascista sull’ebreo «nemico dell’Italia» attecchì anche tra i ceti popolari, con diversi episodi di violenza fisica o verbale (ebrei picchiati, sinagoghe incendiate o distrutte, scritte e volantini di minaccia). Uno scenario che iniziò a mutare solo tra il 1942 e il 1943, quando il disastro bellico, le forti difficoltà economiche e la crisi del fascismo provocarono la messa in discussione di tutti gli architravi della politica del regime.

La grande cultura italiana del tempo reagì alle leggi razziali in preda a quella che Concetto Marchesi, nel gennaio 1945, sul primo numero di «Rinascita», definirà «libidine di assentimento». Fu quasi del tutto assente, tranne poche eccezioni (Benedetto Croce, Arturo Toscanini, l’economista Attilio Cabiati), una protesta visibile degli intellettuali.

Anche gli editori, con la lodevole eccezione dei Laterza, epurarono i testi degli autori ebrei senza opporre resistenza. Avagliano e Palmieri pubblicano le lettere di giubilo inviate a Mussolini: «Caro Duce, il popolo italiano attende con spasimo atroce che venga definitivamente eliminata la stirpe ebraica dal sacro suolo della Patria», scrive a Mussolini un anonimo studente universitario. Aggiungendo: «In nome di tutti i nostri morti abbi il coraggio di imitare Hitler alla lettera e sino alla fine. eia! eia! eia! alalà!!!».

Anche buona parte della burocrazia si distinse per la solerzia e la rigidità nell’applicazione delle misure razziali, spesso anticipandone o aggravandone gli effetti. «Potete intanto stare tranquillo — scrive ad esempio il podestà di un comune molisano scelto come località d’internamento al questore di Campobasso — che sappiamo con chi abbiamo a che fare, con gli ebrei! Razza maledetta».

Nel settore economico, non mancarono i casi di sciacallaggio, di opportunismo, di speculazione, da parte di commercianti, industriali, imprenditori. Il veleno dell’antisemitismo, iniettato nel corpo della società italiana dalla virulenta propaganda fascista, colpì perfino i bambini, come attestano i numerosi episodi documentati nel libro.

Anche la Chiesa, dopo l’iniziale opposizione di papa Pio XI alla politica razzista del regime (e in particolare al divieto di matrimoni misti), mise il silenziatore alle critiche alle leggi razziali e anzi diversi cardinali o esponenti religiosi, come padre Agostino Gemelli, sposarono le misure antisemite del fascismo.

I percorsi della solidarietà furono limitati: alcuni acquistarono beni passibili di confisca a prezzi di mercato, senza approfittare della situazione, altri fecero da prestanome per consentire ai titolari ebrei di non perdere aziende ed esercizi commerciali, altri ancora scrissero lettere al re, al duce e a personaggi influenti del regime per chiedere una qualche forma di clemenza e mitigazione della persecuzione in favore di amici o conoscenti ebrei. Qualche parola di conforto — di «calda e piena manifestazione di solidarietà» e di «giustizia umana», come si legge in alcune lettere di perseguitati— fu comunicata a livello individuale e privato, possibilmente lontano da sguardi indiscreti. E ancora doveva arrivare la vergogna di Salò.

Aldo Cazzullo        Corriere della Sera   19 novembre 2013

 

A scuola di razzismo

Il 2 settembre 1938 Bottai presenta al Consiglio dei ministri il Provvedimento per la difesa della razza nella scuola italiana, giusto in tempo per l’avvio dell’anno scolastico, il 17 ottobre. Le nuove norme sanciscono l’esclusione degli ebrei – docenti e alunni – dagli istituti pubblici di ogni ordine e grado, relegandoli in apposite scuole o sezioni speciali create dalle Comunità con gli insegnanti licenziati, mentre agli studenti universitari che non siano fuori corso, già iscritti all’anno accademico 1937-38, viene concesso di concludere gli studi.

Migliaia di studenti e centinaia di insegnanti vengono così spazzati via dalle scuole e dalle università italiane, e ai bambini non ancora in età scolastica viene consentito di iscriversi solo alle scuole ebraiche e viene preclusa la possibilità di frequentare l’università. (…)

PROMISCUITÀ
La bonifica è volta a escludere – come scrive il provveditore agli studi di Bologna, rigettando la domanda di ammissione di una bambina nonostante le benemerenze del padre – «qualsiasi promiscuità fra alunni di razza ariana ed ebraica». E l’intento riesce perfettamente, visto che alla riapertura delle classi per gli insegnanti e gli alunni ebrei si consuma il dramma dell’esclusione nella più «totale mancanza di solidarietà» da parte di colleghi e compagni. L’espulsione dei docenti ebrei, censiti in agosto dal ministero, è quasi sempre immediata. Per gli studenti, invece, il momento dell’allontanamento dipende dagli organi scolastici. A volte sono necessari controlli sulla loro appartenenza alla razza ebraica, che possono anche prolungarsi nel tempo.

L’8 novembre, ad esempio, a scuola iniziata da qualche settimana, il preside del liceo scientifico Tassoni di Modena informa il provveditore di aver compiuto un’indagine «razziale» tra i suoi studenti e di aver individuato sei ebrei, immediatamente espulsi. La maggior parte dei presidi e insegnanti ariani si adegua al provvedimento senza battere ciglio. E così a Roma – stando alle memorie di quel periodo – quando lo studente di dieci anni Piero Terracina si presenta in classe, la maestra, alla quale era molto affezionato, lo invita freddamente a restare fuori perché ebreo e ignora il suo pianto disperato nel corridoio. Anche tra gli alunni di pura razza italiana l’atteggiamento prevalente è quello del silenzio e dell’indifferenza, che aggravano l’emarginazione e la sofferenza di chi viene colpito dai provvedimenti. La carrellata di testimonianze, da nord a sud della penisola, lo conferma. La milanese Anna Marcella Falco, esclusa dalla quinta ginnasio del liceo Manzoni, resta scioccata dall’«improvviso silenzio», soprattutto da parte delle «due amiche del cuore, con cui mi ero scambiata regolare corrispondenza per tutta l’estate appena trascorsa».

ISOLAMENTO
A Fiume, Luigi Sagi si accorge che i suoi compagni «lentamente sparirono dalla circolazione e se mi incontravano per strada giravano la testa». A Ferrara, «Le mie compagne di scuola – si legge nel diario di Eugenia Bassani – non solo non mi frequentavano più, ma neanche mi salutavano più». «Ci fu una frattura violenta», ricorda Gian Paolo Minerbi, espulso dal Liceo Ariosto: «Quasi tutti i ragazzi della mia classe non mi salutavano più, cambiavano marciapiede quando mi vedevano». A Firenze, Jenny Bassani soffre lo stesso clima di isolamento: «Per noi fu la morte civile. Per me cambiarono molte cose: le mie amiche, che fino al giorno prima, erano compagne di banco, adesso non mi parlavano più». E Nedo Fiano si sente «svuotato»: «Non capivo perché nessuno dei compagni di scuola e dei balilla mi avesse detto una parola di solidarietà». A Pitigliano, accade lo stesso a Eugenia Servi: «Dalla sera alla mattina, insegnanti e bambini, compresi quelli della mia stessa classe mi tolsero il saluto», con la sola eccezione di una ex maestra e del custode della scuola.

A Roma, Angelo Piperno, studente del Liceo Mamiani, rammenta che tra i professori c’è «chi difese il decreto sostenendo che quanto era accaduto era la necessaria conseguenza di tutto ciò che gli ebrei avevano commesso». All’indifferenza talvolta si accompagnano gesti crudeli da parte di insegnanti e compagni. A Roma, Giacoma Limentani alle elementari ha «una maestra fascista che mi diceva “Fuori di classe, brutta ebrea”», e quando viene espulsa «nessuna compagna di scuola, né mia, né di mia sorella, si è fatta viva per dire “Come mi dispiace!”. Se ne fregavano».

Un informatore della polizia riferisce che «In una scuola presso il Lavatore un bimbo ebreo (appartenente certamente a famiglia discriminata) è stato assalito e malmenato dai piccoli compagni antisemiti!» A Torino, Giuliana Bozzi Punteruoli, che frequenta l’istituto delle Martelline, viene dileggiata dalle amiche: «Sul grembiule bianco, dietro, mi scrivevano: “porca ebrea, vattene”». Mentre in una scuola altoatesina è il bidello a cacciare una ragazza ebrea dall’aula con «tutti i ragazzi, trenta, a voltare la testa verso di me e guardarmi come se avessi commesso qualche delitto»

Mario Avagliano e Marco Palmieri        Il Messaggero   19 novembre 2013


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