Il 25 aprile del 1992 moriva in tragico incidente stradale

padre ERNESTO BALDUCCI

(1922- 1992)

 

Nello stesso giorno anniversario della Liberazione moriva un maestro della liberazione, padre Balducci. Come a legare per sempre la figura di questo prete straordinario con il grande evento della storia recente d’Italia, frutto del sacrificio di migliaia di uomini e donne che avevano combattuto e dato la vita perchè l’Italia fosse liberata dal nazifascismo. Anche padre Ernesto è stato un “partigiano”: non sulle montagne o in drammatici scontri con i Tedeschi, ma attraverso la sua brillante e acuta attività di conferenziere o attraverso i suoi illuminanti scritti. Un partigiano che ha lottato per la liberazione più difficile: quella delle coscienze. La liberazione dal grigiore mentale, dall’ignoranza, dall’indifferenza, dall’incoscienza dei grandi problemi del mondo di oggi. Liberazione che ha sempre consistito nel provocare all’impegno e alla responsabilità, alla conoscenza e all’amore da vivere donando se stessi e non rifungiandosi nei “buchi” dove troppi di noi sopravvivono pensando solo a salvaguardarsi. Il 25 aprile del 1945 ha dischiuso la possibilità della Liberazione: era qualcosa in nuce che doveva essere sviluppata, curata, difesa. Sappiamo come è andata, vediamo che Italia e italiani sono di fronte a noi dopo 67 anni da quei giorni fatidici del 1945. Vediamo quanto sia stato “sprecato” il sangue e il sacrificio di migliaia di Resistenti. Padre Balducci ne era consapevole e ha impegnato la sua vita perchè gli italiani diventassero degni di ciò che era stata la Resistenza e non continuassero, con la loro inettitudine, a ritornare sotto la dittatura, questa volta dell’ideologia consumistica, della stupidità e della volgarità, nel disimpegno quasi totale. Proprio come aveva gridato il suo coetaneo Pasolini. Profeti entrambi che hanno messo la loro vita ( così diversa eppure così simile) a servizio dell’uomo e della sua dignità.

Balducci, qualche anno prima della morte, così scriveva:

“Ripenso a quella classe perché molti dei miei compagni seduti là in quei banchi, dieci anni dopo furono fucilati dai tedeschi. Minatori delle terre di Zavorrano, dove erano emigrati per trovare il modo di sopravvivere avevano organizzato, durante la ritirata dei tedeschi una difesa delle miniere. L’elenco di coloro che si erano impegnati in quella difesa fu consegnato ai tedeschi. Il 14 giugno del 1944 83 minatori, fra cui 23 miei compagni, per lo più miei coetanei, furono condotti a Castelnuovo Val di Cecina e fucilati. Ricordo ancora quando tornarono le bare al paese agghiacciato. Quando le 23 bare vennero portate al nostro paese, un urlo si levò dalla folla. Io ero stretto fra la gente.
Non ero uno spettatore. Ero un traditore. Me ne ero andato per una strada dove uno passa per rivoluzionario solo perché scrive un articolo coraggioso che potrebbe perfino impedirgli la carriera. Quando più alto si fa in me il fastidio morale per questo mondo, mi capita di tornare a quegli anni lontani, in quella piccola scuola invasa dalla tramontana, dove l’ideologia della prepotenza cercava di corromperci. Non c’è riuscita. Ma mentre Eraldo Mauro, Luigi e gli altri hanno pagato con la vita la fedeltà al vero, io, noi sopravvissuti, che andiamo facendo?
Celebriamo la Resistenza, che fu un immenso, glorioso sogno di pace e nel frattempo lasciamo che i “nazisti dell’anno duemila” vadano disseminando su tutto il pianeta gli ordigni della morte. “

Cosa stiamo facendo noi, sopravvissuti o nati dopo quegli anni 1943-1945? Ecco la domanda che lascia padre Ernesto, attualissima e drammatica, provocandoci a non celebrare la Resistenza con, spesso, inutili manifestazioni e a non limitarsi a questo, ma a continuarla contro le nuove forme di oppressione mentale e fisica, in Italia e nel Mondo. Continuarla impegnando la nostra vita nella difesa della democrazia, della Costituzione, della libertà responsabile contro la cultura della corruzione e dell’egocentrismo, in un Paese, come il nostro, sempre tendente a forme dittatoriali più o meno velate. In fondo liberarsi dai Tedeschi e da quel Fascismo poteva essere ( e non vi sembri una bestemmia) “più facile”. Più difficile era ed è  fare italiani liberi e cittadini coscienti, tutto ha remato contro questo: ingerenze politiche mondiali, classi politiche incapaci e furbette, interessi economici devastanti, organizzazioni mafiose, presenza soffocante della Chiesa, strategie di potere misteriose e sotterranee. A cui si è aggiunta la crescente indifferenza dell’italiano medio che “dimenticava” la grandezza di altri Italiani che avevano offerto la loro vita come quelli, precedentemente, del Risorgimento vero.

 

 

Questa prima pagina di un giornale di mercoledi 25 aprile 1945  fa stringere il cuore a leggerla 67 anni dopo. Dopo tanti altri “Resistenti” che in questi 67 anni hanno cercato di non far morire quell’insurrezione cercandola di trasferirla nella vita e nell’impegno per la democrazia. Resistenti che sono stati anche loro uccisi o emarginati e, in molti casi, dimenticati di fatto, al di là di retoriche celebrazioni: le vittime di Portella della Ginestra, Giorgio La Pira, Piero Calamandrei, Danilo Dolci, Don Milani, Ernesto Rossi, Aldo Capitini, Peppino Impastato, Giorgio Ambrosoli, Pasolini, Falcone e Borsellino, Davide Maria Turoldo ( il grande amico di Balducci), e altri, carissimi altri ( scusate l’incompletezza dell’elenco). Balducci ci chiederebbe: cosa stavamo facendo noi mentre questi uomini cercavano di continuare la Liberazione?  Ci chiederebbe cosa ne abbiamo fatto di eredità di valori come questa espressa da Pilo Albertelli, un grande Resistente, Martire delle Fosse Ardeatine:

“Se ho lavorato, questo è dovuto unicamente alle convinzioni morali che ormai sono la spina dorsale di ogni mio agire, la convinzione che la vita va vissuta come una missione… un uomo senza ideali non è un uomo ed è doveroso sacrificare, quando è necessario, ogni cosa per questi ideali.”

Pensiero straordinario che può essere la sintesi dell’insegnamento della Resistenza vera e anche della vita di padre Balducci. Riflessione che può e deve portare tutti noi ( ma chi è capace di farsi queste domande inquietanti?) a chiederci cosa ci hanno insegnato i nostri genitori, cosa insegniamo o abbiamo insegnato ai nostri figli se l’Italia è ridotta come quest’altro grande testo di Balducci dice:

 “Della mafia, come della metafisica, dovrebbero parlare solo gli esperti. Ma mentre gli esperti della metafisica, rari e introvabili, possiamo lasciarli senza nostro danno ai loro soliloqui sublimi e inutili, gli esperti della mafia siamo costretti a sopportarli, quando gli avvenimenti li chiamano a ripeterci la lezione di circostanza, senza che al nostro intelletto esterrefatto giunga mai un barlume di luce. Anzi, di anno in anno, che dico?, di mese in mese il buio si fa sempre più buio. E se cominciassimo a prendere la parola noi che esperti non siamo? Se cominciassimo, sgombrandoci di dosso ogni complesso di inferiorità, ad applicare anche a questo fenomeno complesso e misterioso i sani e semplici criteri dell’etica politica su cui si basa, o dovrebbe basarsi, la nostra coscienza di cittadini? Ebbene, dopo aver fatto per una giornata una rigorosa astinenza – non ho toccato un quotidiano, non ho ascoltato un giornale radio, per paura di imbattermi negli esperti governativi – provo a dire la mia.

E comincio con la considerazione più ovvia: la mafia è il segno del fallimento dello Stato, anzi è la crescita di uno Stato illegale dentro le viscere dello Stato legale. I due organismi vivono utilizzando gli stessi apparati: respirano la stessa aria, sono irrorati dallo stesso sangue. Vivono in simbiosi, insomma, tanto che la morte dell’uno sarebbe, stando così le cose, la morte dell’altro. Nessuna radioscopia vi permetterebbe di distinguerli l’uno dall’altro. Nello Stato legale si fa largo ricorso a espedienti illegali e nello Stato illegale si fa largo uso di espedienti legali.
Su questo sfondo, la mafia propriamente detta è una espressione particolare di un male oscuro che ormai investe l’intero apparato amministrativo dello Stato. Un amico imprenditore che opera a Milano ha cercato perfino il mio aiuto per sventare un costume ormai diventato normale in tutte le amministrazioni della penisola: quello delle tangenti nelle aste pubbliche. A suo giudizio non c’è in Italia un solo Comune che ne sia esente. Perfino alcuni amici parlamentari, competenti e onesti, ai quali ho esposto la questione, hanno scosso la testa e mi hanno detto: è vero, ma non c’è niente da fare! E così tutto continua, a tutt’oggi.

Chi si presenta al concorso si sente dire dall’impiegato addetto: «Scusi, lei ha una presentazione?». Un modo pulito per chiedere quale partito o comunque quale padrino il postulante ha alle spalle. La cultura della tangente è ormai la cultura base del paese di Mazzini e di Garibaldi. Se la mafia del Sud ci getta, come oggi, nella costernazione, è perché essa fa largo uso della eliminazione fisica di chiunque, come Libero Grassi, si opponga alla prassi illegale. Ma ci sono infiniti modi per rendere innocui gli onesti: l’uccisione è il metodo più primitivo.
La mafia potrebbe davvero scomparire solo se il principio della legalità diventasse nella coscienza collettiva quello che è di per sé: il modo più elementare di esercitare la responsabilità per il bene comune.
Ma che avviene? Mi pare di vederlo a occhio nudo.
Di anno in anno si fa sempre più diffuso uno spirito di rassegnazione che spesso diventa cinismo. Ma che forse non è, il cinismo, l’ultimo surrogato delle ideologie che nel passato davano una qualche tonalità ideale al nostro ceto politico? Io non arrivo a sospettare che la nostra nomenklatura sia in rapporti di collusione con la mafia. Ma sono certo che se non c’è una complicità programmata, c’è una complicità oggettiva, il cui segno evidente è la spartizione del potere, l’uso degli apparati pubblici per fini di parte, l’assegnazione delle prebende – si pensi ai posti direttivi nelle banche – secondo logiche di parte. Del resto, lo spregio della legalità è diventato un principio proclamato dalle più alte cattedre dello Stato come dimostrano i pubblici elogi fatti agli esponenti di Gladio e della P2.

Non ci salveremo da questo male se non ci sarà una insurrezione democratica [...] Il cosiddetto «paese legale» si è costituito come un corpo separato la cui sopravvivenza impone metodi troppo affini a quelli della mafia. La parete di separazione va abbattuta, i criteri di rappresentanza vanno ripensati, le regole dello stato di diritto devono essere in grado di tener soggetto ogni potere, economico, politico, culturale, al criterio sommo del bene comune. Le segregazioni ideologiche non hanno più senso, e i monumenti viventi che fanno ombra al paese vanno calati giù dal piedistallo. Si accumulano di mese in mese i segnali dell’urgenza di questa operazione. Dobbiamo creare un nuovo Stato che abbia senso anche per le popolazioni del Sud per le quali, dall’Unità in poi, lo Stato ha voluto dire una vergognosa subalternità a poteri politici ed economici insediati altrove. È in questo vuoto che è nata la mafia, metabolizzando, in forme adatte al clima, un male imperversante nell’intero paese.
 Un giorno Alessandro Magno riuscì a catturare un pericoloso corsaro. «Non ti vergogni – gli disse – di impadronirti delle navi con la forza?» «Io – gli rispose il corsaro – conquisto le navi, tu conquisti gli imperi: che differenza c’è?» Nell’antico apologo ci sono tutti i termini per un dialogo tra un boss di Palermo e un boss di Roma. E noi continuiamo a gettar fiori sulle bare, con le lacrime agli occhi. Questo sì che è un tradimento”.

da «Il Secolo XIX», 1° settembre 1991

 

Il testo è tratto dal libro che viene citato più sotto. Padre Balducci, maestro di liberazione, c’insegna insieme agli altri che la Resistenza non è solo un evento storico ma un atteggiamento dell’animo, un modo d’essere perenne che ci rende vigili sulla situazione della democrazia e del degrado umano per giocare tutto ciò che è in nostro potere per opporci. C’insegna che un possibile miglioramento di questo nostro disgraziato Paese non si deve attendere da un cambiamento morale della classe politica ( certamente più che auspicabile) ma dal miglioramento di ciascuno di noi, dall’impegno e dal senso del dovere coraggioso di ognuno di noi proprio come Mazzini ci ha insegnato. Per non continuare a gettare fiori sulle bare dei Resistenti veri che pagano con la vita per la loro e la nostra dignità.

 Grazie, padre Ernesto: a vent’anni dalla tua morte, solo fisica, ci manchi…

 

vedi:  Due preti, vent'anni dopo...

Siate ragionevoli chiedete l'impossibile Pensiero Urgente n°114)

 

 

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