L’accoglienza da parte del tribunale di Firenze della petizione fatta da un signore settantenne (sostenuto dalla figlia avvocato) di usufruire dell’amministratore di sostegno – figura istituita nel gennaio 2005 dal legislatore allo scopo di fornire un’assistenza di carattere economico – per rifiutare, nel caso di stato di incoscienza, alcuni trattamenti medici, ha suscitato (e non poteva che suscitare) reazioni contrastanti, riportando alla ribalta l’annosa questione delle scelte relative alle situazioni di fine vita. Le difficoltà della politica a legiferare – si pensi soltanto al faticoso iter della legge sul «testamento biologico», approvata dal Senato in una forma considerata da molti (giustamente) insoddisfacente e da tempo in attesa di essere discussa dalla Camera – spinge la magistratura, pressata da richieste sempre più insistenti, a fare opera di supplenza. Al di là degli inevitabili conflitti che questo produce e che sono, in primo luogo, addebitabili all’inefficienza della politica, la sentenza, anticipata peraltro da un’altra analoga del tribunale di Modena del 2008, merita di essere fatta oggetto di attenta considerazione, soprattutto per gli importanti risvolti di carattere etico.
Oltre l’eutanasia e l’ accanimento terapeutico
Sul piano strettamente giuridico, le motivazioni di fondo che stanno alla base del giudizio espresso dal tribunale fiorentino vanno rintracciate negli indirizzi di ordine generale contenuti nella Costituzione, in particolare all’art. 32, dove si afferma con chiarezza il diritto di ogni cittadino a scegliere quali trattamenti sanitari accettare e quali rifiutare. Questo diritto ha ricevuto, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, un forte avvallo, sul terreno etico, dall’introduzione del principio di autonomia (o di autodeterminazione), che ha assunto un ruolo sempre più centrale nell’ambito della bioetica, fino ad essere interpretato da alcuni (non del tutto correttamente) come l’unico principio al quale fare riferimento nelle scelte relative alla gestione della salute. La libera decisione del paziente circa le cure cui essere o non essere sottoposto ha pertanto il significato di un imperativo morale e giuridico al quale non è possibile derogare.
L’esercizio legittimo di tale decisione deve tuttavia svilupparsi entro i limiti fissati dal sistema giuridico del nostro paese, che rifiuta tanto l’eutanasia quanto l’accanimento terapeutico. In ambedue i casi il valore che si intende tutelare è quello della vita umana, la quale non è riducibile al solo dato biologico, ma è «vita personale», che esige come tale una specifica attenzione agli aspetti qualitativi. La condanna dell’accanimento terapeutico non è forse motivata da questa considerazione? Il fatto che esso sia ritenuto come un vero e proprio attentato alla vita, non dipende dalla constatazione che il prolungamento della vita biologica avviene, in questo caso, a scapito della vita personale (e relazionale), la quale finisce per essere radicalmente dequalificata? La preoccupazione da cui muove la richiesta del signore settantenne al quale qui ci si riferisce è di evitare di incorrere in tale situazione. Il rapido e consistente progresso tecnologico in campo biomedico se ha infatti contribuito, da un lato, a debellare malattie un tempo letali – e come tale costituisce un importante contributo alla promozione umana – ha, dall’altro, provocato l’insorgere di nuovi problemi legati in particolare alla possibilità di forme di sopravvivenza del tutto artificiali, destituite di ogni dimensione autenticamente umana. Il rispetto del «naturale percorso biologico», che viene invocato come antidoto all’eccesso di manipolazione presente in alcune situazioni di fine vita, reclama la fissazione di un limite (mai definibile peraltro apriori e una volta per tutte) all’intervento dell’uomo. Il concetto di «natura», al quale spesso ci si riferisce per determinarlo, rimane, per molti aspetti, equivoco: il morire (come del resto il nascere) è andato soggetto da sempre a profonde mutazioni culturali. Questo non significa che tutto sia riducibile a «cultura»; esiste infatti un nucleo di «naturalità» del morire che va salvaguardato, se si vuole conservare alla morte, che è l’atto supremo della vita, la dignità che le compete.
Di quali trattamenti si tratta?
La domanda che immediatamente sorge e alla quale occorre rispondere è allora: quali sono i trattamenti che l’amministratore di sostegno è autorizzato a far sospendere? La sentenza del tribunale di Firenze include tra questi anche la nutrizione e l’idratazione. Ora proprio attorno a questi due trattamenti si è aperto da tempo nel nostro paese un ampio dibattito pubblico, divenuto particolarmente acceso nel corso delle ultime fasi della vicenda di Eluana Englaro; dibattito che ha sollecitato la presentazione del disegno di legge sul testamento biologico, approvato finora – come si è accennato – da un ramo del Parlamento.
La contrapposizione di fondo immediatamente emersa, che è stata (ed è tuttora) causa di aspri conflitti, verte anzitutto sulla «natura» dei due trattamenti enunciati. Vi è infatti chi ritiene che «nutrizione» e «idratazione» costituiscano un «sostegno vitale», al quale non si può (e non si deve) mai derogare – si incorrerebbe altrimenti nella «eutanasia passiva» -; e chi, al contrario, sostiene trattarsi di interventi curativi, come tali da sottoporre alla libera decisione del paziente o, nel caso qui preso in esame, non potendo esprimere il paziente il proprio parere, alla decisione dell’amministratore di sostegno.
Entrambe le posizioni, per quanto contengano aspetti indubbi di verità, risultano viziate – ci pare – da visioni unilaterali. È fuori dubbio infatti che, sul piano antropologico, nutrizione e idratazione rappresentino una forma di sostegno vitale della persona, e che non si possa pertanto parlare di cura in senso terapeutico e neppure palliativo; ma è altrettanto indubbio che, in alcuni casi, esse comportino l’esercizio di un vero e proprio «atto medico», esigendo per essere somministrate persino un intervento chirurgico. Posta in questi termini la questione non può che determinare una situazione di stallo senza via d’uscita.
Per superare questa impasse occorre allora – come già altre volte si è suggerito – riportare la discussione nell’ambito che le è proprio, nel quadro cioè delle «questioni di frontiera», che si situano in quella zona grigia che sta tra «eutanasia passiva» e «accanimento terapeutico»; questioni la cui soluzione va, di volta in volta, ricercata ricorrendo al criterio di proporzionalità. La mancata somministrazione di «nutrizione» ed «idratazione» può assumere, in alcuni casi, il carattere di «eutanasia passiva» (cioè di omissione di soccorso), quando ci si trova in presenza di soggetti che hanno ancora buone possibilità di vita in condizioni umanamente dignitose; è destinata invece a provocare, in altri casi, «accanimento terapeutico», quando implica semplice prolungamento sul piano biologico di una vita destituita ormai di significato umano. La proporzionalità è dunque tra il fine che si persegue e il mezzo che si usa per perseguirlo, dove il fine ha senza dubbio il primato e dove il mezzo non sfugge tuttavia al giudizio morale, non è cioè del tutto «neutro» bensì va rapportato al fine nello sforzo della ricerca del «bene possibile» (non di quello assoluto mai raggiungibile) e talora semplicemente del «male minore».
Alcune condizioni da verificare
In questo contesto la sentenza di Firenze acquisisce un indiscutibile valore non solo sul piano giuridico ma anche etico. Essa deve tuttavia sottostare, per diventare concretamente fruibile, a due condizioni, che non sembrano sufficientemente da essa considerate.
La prima consiste nell’accertamento che la consegna affidata all’amministratore di sostegno esprima un orientamento di massima, e non assuma invece il carattere apodittico di un’azione da eseguire a prescindere da qualsiasi circostanza. Il criterio di proporzionalità può infatti essere applicato soltanto laddove sussiste questa duttilità, la quale consente il confronto tra la volontà del paziente e la peculiarità della sua situazione. La definizione di una casistica dettagliata, da alcuni auspicata, oltre a risultare impossibile per l’estrema varietà delle situazioni soggettive, è anche rischiosa, perché non può tener conto dell’evoluzione dei processi in campo medico, e perciò della possibilità che vengano sperimentati nel frattempo nuovi trattamenti precedentemente non previsti né prevedibili.
La seconda condizione, peraltro strettamente connessa a quella precedente, è il rispetto del ruolo del medico, il quale deve poter interagire con l’amministratore di sostegno, portando il proprio contributo di competenza e di esperienza e favorendo in tal modo la ricerca della soluzione migliore. All’atteggiamento paternalistico del passato che faceva del medico l’unico decisore, anche per l’abitudine dei pazienti alla delega, non può (e non deve) sostituirsi l’atteggiamento opposto, che lo riduce a semplice esecutore di ordini impostigli dal paziente o dall’amministratore di sostegno. Ciò infatti, oltre a favorire il dilatarsi (giustificato) dell’obiezione di coscienza da parte del medico, ha soprattutto come esito la rinuncia a perseguire il bene del paziente. Soltanto la creazione di un rapporto di fiducia tra medico e amministratore di sostegno nel segno dell’alleanza terapeutica rende dunque possibile una corretta applicazione della sentenza.
L’assegnazione all’amministratore di sostegno di una funzione determinante come quella riconosciutagli dal tribunale fiorentino e soprattutto l’introduzione del testamento biologico costituiscono importanti passi avanti nel processo di umanizzazione della morte, oggi paradossalmente minacciata anche dall’avanzare del progresso tecnico. Non si può ignorare tuttavia che tali strumenti sono ancora appannaggio di pochi privilegiati: nel primo caso – quello dell’amministratore di sostegno – perché la possibilità di far valere il proprio diritto presuppone, oltre alla presenza di un certo livello culturale, una buona disponibilità economica e il sostegno di competenze specifiche (non è da sottovalutare il fatto che il settantenne che si è rivolto al tribunale fiorentino fruisse dell’aiuto di una figlia avvocato); nel secondo – quello del testamento biologico – perché il ricorso ad esso – lo confermano i dati sociologici dai quali risulta che nei paesi più evoluti dove è già da molti anni entrato in vigore solo una percentuale ridotta della popolazione (circa il 15%) lo utilizza – esige la maturazione di una particolare sensibilità alle questioni della vita e della morte ancora lontana dall’essersi affermata in termini diffusi. La via per la promozione di tali diritti – perché di diritti si tratta – è dunque irta di difficoltà e la meta ancora lontana. Il che rende evidente l’urgenza di una seria educazione che mobiliti le coscienze. Ma anche la necessità di un profondo rinnovamento strutturale che renda concretamente accessibile a tutti la possibilità di un effettivo esercizio della volontà dei pazienti.
Giannino Piana, teologo in Rocca 4/11