Il giudice Rosario Livatino, ucciso il 21 settembre 1990 mentre si recava in tribunale, aveva scritto su un quaderno queste parole: «Alla fine non ci sarà chiesto se siamo stati credenti ma se siamo stati credibili». Sono parole stupende per profondità e provocazione. Parole che aiutano a sottolineare due aspetti fondamentali della responsabilità educativa: la verità e la coerenza. Se vogliamo davvero crescere e aiutare a crescere attraverso il rapporto educativo, non ci è consentito bluffare. Non solo non è permessa la presunzione, il sentirsi superiori agli altri, l’obbligarli a camminare al nostro passo, ma una volta che si entra in relazione bisogna essere veri, leali, sinceri. Né sono ammessi impegni a metà: le parole devono saldarsi ai fatti, le intenzioni non possono restare sulla carta. Educazione e legalità sono due modi di pronunciare la parola «noi». 

Nell’educazione il «noi» ha il volto della reciprocità: io e te siamo diversi, ma è proprio sul terreno di questa comune diversità che possiamo incontrarci, riconoscerci, amarci. Nella legalità il «noi» ha invece il volto della legge, un volto forse arcigno ma necessario. Un volto che non ci è chiesto infatti di amare ma di rispettare. Una società ha bisogno di leggi perché il volto della legge simboleggia quello degli «altri», delle persone che non conosciamo direttamente ma che vivono insieme a noi e come noi hanno il diritto di essere riconosciute nella loro unicità e dignità. Mi capita di dialogare ogni giorno con molti giovani – nelle scuole, nelle associazioni, nei centri sociali – e quando il discorso tocca la questione della legalità e del rispetto delle regole, li vedo reagire sostanzialmente in tre modi: l’imitazione («Se la maggior parte non le rispettano, perché proprio io devo iniziare a farlo?»); la sfiducia nelle istituzioni, ritenute lontane e incapaci d’incidere davvero nella vita delle persone; ma anche, per fortuna, la ribellione, la voglia d’impegnarsi per costruire una società più giusta e solidale. Credo che le prime due reazioni – il conformismo e la sfiducia – possono essere contrastate, a patto però di non limitarsi alle parole. Come l’educazione, anche la legalità non va predicata ma praticata. Presentare la legalità solo in un’ottica formale, come un sistema di prescrizioni e di divieti, significa mancare l’incontro con i giovani. Un giovane vuole sapere perché le cose esistono, non limitarsi a sapere che esistono. La legalità comincia quando ci si sente parte attiva di un contesto, quando da anonimo spazio di transito e di consumo la città diventa «immagine riflessa» di una mappa interiore di affetti, relazioni, stupori.

 Altri strumenti e metodi richiede l’educazione alla legalità nei contesti di mafia. Parlare di legalità in questi contesti può suonare come un esercizio retorico se alla parola non si legano progetti, opportunità reali di cambiamento; se ci ferma alla denuncia dell’aspetto criminale senza incidere nelle dinamiche sociali, culturali, economiche del potere mafioso. L’affiliazione mafiosa non avviene infatti solo per trasmissione diretta. Se per un bambino che nasce in una famiglia mafiosa è normale quello che respira in casa – le parole, i gesti del papà e della mamma – i codici e i valori delle mafie esercitano la loro influenza ben oltre il campo ristretto delle mura domestiche. Uno psicologo, Saverio Abruzzese, ha acutamente individuato questi meccanismi di condizionamento ambientale, descrivendo la mafia come una «madre severa ma al tempo stesso premurosa, che non ti fa mancare nulla e dà rispetto, identità, denaro». Un ragazzino «reclutato» dalle mafie si sente qualcuno. Vede il sistema criminale come una grande famiglia a cui è orgoglioso di appartenere e mitizza il boss di quartiere come un eroe positivo, una specie di Robin Hood che combatte lo Stato per proteggere i più deboli. La mafia ha gioco facile nel colmare i suoi formativi: «Te li compri con un caffè e ti rimangono fedeli», ha spiegato un pentito. Ecco perché l’educazione alla legalità deve offrire concretamente qualcosa di diverso. Anche un nuovo vocabolario, perché la parola «legalità» – lo ripeto da molto tempo – è ormai inadeguata a veicolare quel vantaggio di azioni, percorsi, progetti necessari a ricostruire il tessuto di un territorio, il suo essere sia comunità sia società, luogo che accomuna le persone valorizzando al tempo stesso le loro capacità e qualità individuali. Era la preoccupazione di don Italo Calabrò, grande figura di educatore, una vita spesa accanto ai più fragili, ai più indifesi. Profondo conoscitore della ’ndrangheta, don Italo fu tra i primi a capire che la questione criminale mafiosa andava collocata su uno sfondo di sottosviluppo economico, di vuoto culturale, di diritti negati, di politiche deboli se non complici. La sua lezione resta preziosa. È solo allargando l’orizzonte culturale e operativo della parola legalità che possiamo sperare d’incidere nei contesti di mafia. Contesti che non influenzano solo le scelte di chi, per vincolo familiare o condizione sociale, è più esposto alla pressione dei sistemi criminali, ma anche quelle dei tanti giovani che sognano per sé e per gli altri un futuro diverso, ma che in assenza di progetti e proposte credibili rischiano di rassegnarsi alle mafie come a un male inevitabile.

 

 Luigi Ciotti     Avvenire  10 aprile 2011

(il testo di don Luigi Ciotti è tratto dal volume «Giovani e legalità», a cura di Anna Maria Giannini  e Roberto Sgalla, appena pubblicato dalla casa editrice Il Mulino, pp. 204, euro 18)

 

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