Si susseguono a ritmo battente le notizie, regolarmente riportate da questo settimanale, dell’affido ad un solo prete di tre, quattro, addirittura sette parrocchie. E’ il segno evidente della scarsità di clero e delle vocazioni al sacerdozio. Ma non è di questo che voglio parlare. Dietro queste notizie c’è un uomo, di Dio fin che volete, ma con le sue forze, la sua salute, le sue capacità. Che possono anche venir meno. E può essere quindi a disagio. A questo disagio dei preti è stato dedicato uno studio della rivista “Il Regno“, che riporta analisi e  inchieste fatte da Alessandro Castegnero, presidente dell’Osservatorio socio-religioso del Triveneto e riguardano quindi anche le diocesi di Trento e di Bolzano. Possiamo quindi sentirvi le voci, i lamenti, le confidenze e i sospiri dei nostri preti. Vi si parla di “sovraccarico professionale e intasamento dei tempi di vita quotidiani”. Un prete sempre in macchina per raggiungere le varie parrocchie, come un commissionario del sacro. E il rischio è proprio quello di diventare un burocrate del sacro. Quanto questo possa essere stressante lo dice la stessa contraddizione tra sacro e burocrazia. Ne nasce una routine spersonalizzante che riduce il prete a distributore. Viene in mente quel matto di prete di una regione del Sud d’Italia che ha effettivamente “inventato” un distributore automatico a pulsante della comunione. Al prete inoltre sono richieste una serie di competenze: quelle biblio-liturgiche connesse alle celebrazioni; quelle relazionali e cioè di accompagnamento spirituale; quelle di “governo” delle parrocchie che comportano anche competenze amministrative. Insomma un sovraccarico di lavoro. Lo studio arriva a parlare perfino di “burn-out”, termine inglese per dire crisi professionale. Luciano  Tavazza l’ha tradotto in italiano con “cortocircuito”. E’ quello stato d’animo per cui uno si sente svuotato di energie, il suo lavoro lo annoia e vive i rapporti con le persone con distacco. Fino al punto, dice Castegnero, da cadere nella “crisi spirituale e di senso” e percepire la propria vita come “fallimento vocazionale”.

Qualcuno potrà dire che a un prete non dovrebbe succedere perché ha il sostegno della fede. Mi è accaduto ancora di sentire bollare certe crisi come “mancanza di fede”. E che cosa c’è di più drammatico per un prete del sentir venir meno la fede? C’è poi il tasto dolente della solitudine. Si parla di solitudine ecclesiale alludendo ai rapporti con l’autorità ecclesiastica e con i confratelli sacerdoti. Per il primo aspetto si annota che dagli uffici centrali della diocesi “i preti vorrebbero sostegno e accompagnamento e invece ottengono direzione”. Con i confratelli c’è cameratismo anziché amicizia. Solitudine pastorale percepisce il prete quando il contesto “apprezza il prete per quanto fa e rappresenta, ma rimane distaccato e garbatamente indifferente verso quanto testimonia e annuncia”. Esemplificando: non è consolante sentirsi dire “voi preti dovete dire così, ma noi abbiamo altre preoccupazioni e altri compiti’. Questo vale soprattutto nei rapporti con i laici che frequentano anche la chiesa, vanno regolarmente a Messa, ma i messaggi che vi ascoltano anche dalle omelie del prete volano alti come teorie bellissime, ma non si impastano con la vita quotidiana. E allora anche il prete è “icona” posta in alto e ben incorniciata. Il che vuol dire nuovamente solitudine. Dorata fin che volete, ma fredda solitudine. Mentre il prete, come ogni uomo, ha bisogno di amicizia sia dei suoi confratelli preti e del vescovo sia dei laici. Ho notato maggior entusiasmo nei nostri preti “fidei donum” che sono andati in missione nelle nuove Chiese dell’America Latina. Non per nulla tendono a ritornarvi. E la ragione ritengo stia nel fatto che mentre lì è la gente che cerca il prete, qui è il prete che deve andare a cercare la gente. Sia ben chiaro che il prete non vuol essere coccolato, ma sentirsi persona tra le persone questo sì. Ho detto persona non personaggio.

 

Vittorio Cristelli      in “vita trentina”  14 novembre 2010


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