A distanza di 15 secoli, Ipazia è ancora una ferita aperta. Dopo il film di Amenábar, Agorà, arrivato la scorsa primavera anche in Italia, vincendo tenaci e prevedibili veti, la tragica eroina del libero pensiero, icona di laicità, è al centro del nuovo libro di Silvia Ronchey, Ipazia. La vera storia (Rizzoli, pp. 319, e19). Filosofa, matematica e astronoma, docente nell’Accademia platonica di Alessandria d’Egitto, dove visse tra il 370 e il 415 d.C., Ipazia fu massacrata, letteralmente fatta a pezzi dal fanatismo della prima Chiesa cristiana locale, e segnatamente del suo patriarca Cirillo. Era il culmine di un crescendo di intolleranza (è del 391 un altro celebre misfatto, la distruzione
del Serapeo), dopo che l’editto di Costantino, nel 313, sembrava aver dischiuso le migliori speranze concedendo ai cristiani la libertà di culto: ma adesso le vittime erano i pagani. Delle opere di Ipazia non è rimasto nulla, e al di là della sua triste sorte ben poco sappiamo di lei: che era aristocratica, in tutto, ed era bella, e i suoi allievi se ne innamoravano, ma venivano inesorabilmente respinti. Silvia Ronchey cerca di ricostruirne l’autentico profilo inserendola nel contesto dell’epoca e degli eventi, in riferimento costante alle fonti antiche (in appendice al testo, la «documentazione ragionata» occupa un centinaio di pagine) e mettendo a confronto le diverse testimonianze di matrice cristiana con quelle pagane, in un racconto non meno godibile che erudito. Ne proponiamo qui le pagine conclusive.

” Nel quinto secolo la morte di Ipazia non segna la fine di un’era, ma, come avevano intuito sia Diderot sia Chateaubriand, segna un inizio. Ipazia muore, ma passa la fiaccola. Il nucleo intellettuale di cui è erroneamente vista come l’«ultima» esponente è in realtà quello da cui germoglierà per undici secoli la fioritura più rigogliosa della cultura bizantina. Dove il paganesimo sopravvivrà non solo, nella sua accezione più alta, nel platonismo filosofico, ma anche nel culto popolare cristiano; dove all’olimpo dell’antico politeismo si sostituiranno il martirologio e il sinassario, alle narrazioni mitologiche le leggende agiografiche, alla selva dei simulacri pagani la folla delle icone. Il quinto secolo non è l’orlo di un baratro, come spesso ha indotto storici e letterati a credere l’errata percezione del millennio bizantino come «decadenza infinitamente protratta», anche questa ampiamente legata alla propaganda papista. È, invece, l’inizio di un’inversione di tendenza, la vigilia di una rinascita della paideia antica. La condanna di Cirillo nelle fonti bizantine, contrapposta alla sua difesa nella Roma dei papi, è la cartina al tornasole della persistente volontà di separazione tra Stato e Chiesa che a Bisanzio, Stato laico anche se con religione di Stato, si applicò senza soluzione di continuità. L’esistenza nel cuore dell’Europa di uno Stato della Chiesa, il cui capo spirituale è anche detentore di un potere temporale, è un unicum storico. Là dove questa anomalia non si è prodotta, non si è avuta interruzione della cultura antica. Lo studio dei testi antichi è continuato, insieme alla tradizione manoscritta e alla trasmissione delle idee, anche se queste potevano talvolta apparire in conflitto con l’ideologia cristiana dominante.

La fiaccola di cui Ipazia è stata portatrice non si è spenta, ma molti altri uomini e donne hanno continuato a passarla. Attraverso di loro, la philosophia di Ipazia, di Sinesio e degli antichi, eclettici o meno, philosophes di Alessandria arriverà al nostro Umanesimo e Rinascimento. E per questo tramite, all’illuminismo e a quelle altre correnti di opinione che hanno spezzato l’omertà della Chiesa occidentale e fatto di Ipazia il simbolo della libertà di pensiero. Con distorsioni e deformazioni, perché nel mondo occidentale moderno, che non ha conosciuto finora abbastanza Bisanzio, la vicenda di Ipazia poteva difficilmente essere compresa nei suoi corretti termini storici. È stata così attualizzata e adattata ai tempi, come del resto la storia fa sempre, secondo il mai abbastanza citato detto di Croce per cui si fa storia solo del presente. Ma su un punto non si può non essere concordi: a qualunque cosa Ipazia sia somigliata di più, a una studiosa o a una sacerdotessa, a una composta insegnante o a un’aristocratica eccentrica e trasgressiva; che sia stata giovane o no, che abbia fatto o no davvero innamorare i suoi allievi, che abbia o no – non è escluso – scoperto qualcosa di nuovo; che l’insegnamento iniziatico da lei impartito con tanto successo all’inquieta aristocrazia ellenica offrisse o no già la rivelazione che a un livello alto la teologia platonica inglobava quella cristiana e che gli improbabili dogmi di quest’ultima andavano tollerati, praticando l’arte platonica della «nobile bugia», perché utili al popolo quanto ogni antica superstizione pagana; che sia stata risoluta nello sbarrare il passo all’ingerenza della Chiesa nello Stato e troppo ingombrante nello sfidare la strategia di Cirillo con la sua parrhesia, o che la sua morte sia stata solo un incidente dovuto al subitaneo isterismo di un influente prelato cristiano ottenebrato dall’emulazione e dall’ambizione, oltreché al momentaneo disorientamento di un prefetto augustale romano messo in difficoltà da un vuoto di potere imperiale; in ogni caso, ogni volta che nella storia si ripropone, e si ripropone spesso, il conflitto tra un Cirillo e un’Ipazia, una cosa è certa: siamo e saremo sempre dalla parte di Ipazia.


Silvia Ronchey      La Stampa  15 novembre 2010

 

vedi:

IPAZIA. LA VERA STORIA.

Ipazia senza miti: né Galileo in gonnella, né proto-femminista


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