Gli ideali scaturiti dalla storia e dalla cultura del continente sembrano essersi inariditi. Oggi dominano i «Trattati», i mercati e la logica della globalizzazione

«I parafulmini devono essere saldamente infissi nel terreno. Anche le idee più speculative devono essere ancorate nella realtà, nella materia delle cose. Che dire allora dell’idea di Europa?». Con queste parole comincia un saggio, straordinario per profondità ed eloquenza, in cui George Steiner ha messo sul tavolo Una certa idea di Europa. Questa sua idea si distende in cinque parametri, esposti con gusto narrativo e forza metaforica. L’Europa è prima di tutto il luogo dove regna il caffé, «luogo degli appuntamenti e delle cospirazioni, del dibattito intellettuale e del pettegolezzo».

È una cartografia “camminata”, dove «il paesaggio è stato modellato e umanizzato da piedi e mani» (e il viandante, si legge tra le righe, di quando in quando si ferma a discutere in un caffé). È un luogo di memoria, dominato dalla sovranità del ricordo: perciò le strade vi sono intitolate a personaggi storici, e anche il restauro dei monumenti dopo una guerra o un terremoto è «la prova di una fortissima volontà di ricordare».

Quarto parametro, l’ossessione del passato, «una ragnatela luminosa e insieme soffocante», che ha qualcosa di ambiguo, perché l’Europa è il frutto di una doppia eredità, quella di Atene e quella di Gerusalemme, e deve «negoziare sul piano morale, intellettuale ed esistenziale gli ideali, le pretese, le praxeis contrastanti della città di Socrate e di quella di Isaia». Infine, il quinto parametro: un’acuta consapevolezza della fine, che s’incarna anche nelle ricorrenti rappresentazioni di “rovine anticipate”, «città d’Europa in preda alle fiamme o sommerse dalle inondazioni».

Quest’idea di Europa è fondata sulla sua cultura e sulle sue diversità interne. Da un lato, un’assidua esplorazione creativa (alle tre direzioni indicate da Steiner, musica matematica e filosofia, va aggiunta l’arte), che corrisponde alla «dignità dell’homo sapiens, la realizzazione della conoscenza, la ricerca disinteressata del sapere, la creazione della bellezza». Dall’altro lato, «la mappa frammentata dello spirito europeo e della sua eredità», che ha dimostrato una fertilità inesauribile», anche perché intrisa di «quel senso di tragica vulnerabilità della condizione umana», che la potente metafora delle rovine incarna e rilancia con ritmo incessante.

Da quelle rovine, sempre venne finora una più o meno duratura rinascita. Ne verrà una anche dalle rovine che vanno accumulandosi intorno a noi? Il saggio di Steiner può essere criticato come “eurocentrico“, ma la sua idea di Europa contiene in sé un perfetto antidoto, il dubbio e l’indagine conoscitiva.

L’ideale socratico della “vita esaminata” (al fine di intendere da quali motivazioni sia mosso il nostro agire) comporta «quella che Platone chiamava mania, esser posseduti dalla ricerca della verità», e per questa via raggiunge la filosofia del Novecento.

È su questa strada che ogni idea d’Europa deve misurarsi con un intenso esercizio di comparazione; e che il ritmo di morti e rinascite, proprio della cultura europea, dev’essere identificato e indagato anche in altre culture. Ed è su questa strada che la memoria culturale dell’Europa deve confrontarsi con altri serbatoi di memoria culturale, elaborando una nuova fraternità fra i ”prigionieri” d’Europa e quelli che vi sono “esuli”, secondo la grande metafora della Peste di Camus: «Essi provavano la sofferenza profonda di tutti i prigionieri e di tutti gli esiliati: quella di vivere con una memoria che non serve a niente».

Perché la memoria culturale degli europei, come quella dei migranti, davvero rischia di non servire a niente. Ma l’Europa di oggi conserva l’impulso a cercare la verità delle cose, una memoria di sé che induca al confronto, l’incessante interrogarsi sul perché delle nostre azioni? C’è ragione di dubitarne.

Nulla rappresenta oggi l’Europa quanto le istituzioni dell’Unione Europea. Ma nelle istituzioni europee non regna la cultura, non regna il dubbio, non regna la dignità umana né la giustizia sociale. Regna il mercato e regna la certezza che ad esso solo spetti il potere di regolare la società in tutti i suoi aspetti. Che la “mano invisibile” dei mercati, creando e ridistribuendo la ricchezza, finirà col dare a tutti lavoro, libertà, cultura, giustizia e democrazia. E che chi non si assoggetta a tali leggi irrevocabili dev’essere imbrigliato, punito, ridotto alla ragione, obbligato all’austerità.

Si è esaurito, a quel che sembra, il notevolissimo impulso ideale che fra le rovine della seconda guerra mondiale innescò il processo che avrebbe portato alla nascita dell’Unione Europea. L’Europa a cui primariamente si pensa oggi non è quella della sua storia e della sua cultura, ma quella dei Trattati, dove il ruolo della memoria storica è marginale, come lo è l’equità sociale; è un’Europa prona alla logica globalizzante che implica la metamorfosi del cittadino in consumatore.

Rispetto a questa Europa dei mercati, l’Europa della cultura è (per citare una metafora cara a Benjamin) come il mendicante che bussa alla porta. Avrà con sé un messaggio, o forse addirittura il siero che guarisce la peste? Non lo sapremo mai, se quella porta non verrà mai aperta. Ma perché si apra, dobbiamo bussare più forte, dobbiamo alzare la voce.

Salvatore Settis       Il Sole Domenica   21.5.17

 

Il libro:   George Steiner, Una certa idea di Europa, ed. Garzanti  2010,  € 9,00

 

vedi:   La terra di conquista

Bauman, liquidatore delle certezze e ideologie del 900

L’Europa ha bisogno di un cuore

Il giudizio universale di JP Morgan

La democrazia ha ancora bisogno di Maestri

La peste della memoria inutile


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