Tra il 1945 e il 1946, poco prima di partecipare ai lavori della Costituente, Piero Calamandrei (1889- 1956) scrisse la prefazione a un saggio di Francesco Ruffini (circolato clandestinamente durante il fascismo), in cui si interrogava su libertà, giustizia ed equità sociale. Anticipiamo qui uno stralcio de “L’avvenire dei diritti di libertà”, che torna in libreria da lunedì con l’introduzione di Enzo Di Salvatore.

Mentre i tradizionali diritti di libertà hanno carattere negativo, in quanto a essi corrisponde l’obbligo dello Stato di non ostacolare l’esercizio di certe attività individuali, i diritti sociali hanno carattere positivo, in quanto a essi corrisponde l’obbligo dello Stato di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che si frappongono alla libera espansione morale e politica della persona umana. Coi primi si mira a salvaguardare la libertà del cittadino dalla oppressione politica; coi secondi si mira a salvaguardarla dalla oppressione economica.

Il fine è lo stesso, cioè la difesa della libertà individuale, ma i mezzi sono diversi: mentre per soddisfare i diritti sociali lo Stato deve adoprarsi attivamente per distruggere il privilegio economico e per aiutare il bisognoso a liberarsi dal bisogno, il compito dello Stato a difesa della libertà non si racchiude più nella comoda inerzia del laissez faire, ma implica una presa di posizione nel campo economico ed una serie di prestazioni attive nella lotta contro la miseria e contro l’ignoranza.

Libertà di pensiero o di parola vuol dire diritto del cittadino a che lo Stato non lo perseguiti per le sue opinioni e non lo ostacoli nella pubblica manifestazione di esse; libertà dal bisogno vuol dire diritto del cittadino a che lo Stato concorra a fornirgli i mezzi per lavorare e per assicurargli una vita non bestiale ma umana.

Senza l’accompagnamento dei diritti sociali le tradizionali libertà politiche possono diventare in realtà strumento di oppressione di una minoranza a danno della maggioranza: sicché si può dire in conclusione che i diritti sociali costituiscono la premessa indispensabile per assicurare a tutti i cittadini il godimento effettivo delle libertà politiche.

I diritti di libertà nel senso tradizionale costituiscono, per il solo fatto di trovarsi iscritti nella Costituzione, un impegno immediato dello Stato di astenersi dal compiere atti che possano turbare, in modo non consentito dalle leggi, quelle libertà: sono diritti già perfetti ed attuabili che lo Stato, purché voglia, può immediatamente rispettare e soddisfare senza fatica e senza spesa, dato che per rispettarli e soddisfarli le autorità pubbliche non devono far altro che mantenere una posizione di non intervento e di inerzia che non costa nulla.

Ma lo stesso non si può dire per i diritti sociali: i quali, poiché ad essi corrisponde da parte dello Stato un obbligo positivo di fare e di dare, pongono allo Stato, per la loro soddisfazione, una serie di esigenze pratiche che non possono essere soddisfatte se non disponendo di mezzi adeguati, conseguibili soltanto a prezzo di profonde trasformazioni dei rapporti sociali basati sull’economia liberale.

Quando si pone nelle Costituzioni, fra i diritti sociali, il diritto al lavoro o il diritto all’istruzione gratuita fino alle università per i meritevoli non abbienti, è chiaro che in questo modo si pongono per lo Stato formidabili compiti che non possono essere adempiuti coll’inerzia e coll’astensione. E il vero problema politico, allora, non è quello di riuscire ad inserire nella Costituzione la enunciazione di questi diritti, ma è quello di predisporre i mezzi pratici per soddisfarli e per evitare che essi rimangano come vuota formula teorica scritta sulla carta, ma non traducibile nella realtà.

Questa è la ragione per la quale i diritti sociali che si leggono in molte delle Costituzioni apparentemente democratiche uscite dalla prima guerra mondiale sono rimasti nella realtà allo stato di vaghi indirizzi programmatici e di promesse affidate all’incerto avvenire. Il diritto al lavoro, il diritto all’assistenza contro la vecchiaia e contro la malattia, il diritto all’istruzione gratuita sono stati affermati come lontane mete ideali non ancora raggiunte: la miseria se pure attenuata è rimasta, la disoccupazione se pur fronteggiata è rimasta, il privilegio dell’istruzione è rimasto.

La proclamazione dei diritti “sociali” nella Carta costituzionale rimarrà lettera morta se ad essi non corrisponderà una trasformazione effettiva della struttura economica della società, ossia una rivoluzione sociale che fornisca allo Stato i mezzi per soddisfarli. Quando si è affermato nella Costituzione che tutti i cittadini hanno diritto al voto, non c’è altro da fare: il diritto al voto entra senz’altro nel meccanismo costituzionale ed è senz’altro una realtà politica; ma se nella Costituzione si scrive che tutti i cittadini hanno diritto al pane, questa non è ancora una realtà politica, fino a che non si è modificata la struttura economica che finora ha consentito ai privilegiati la libertà di accumulare ricchezze e ai diseredati la libertà di morire di fame.

Per questo l’apparizione dei diritti sociali nelle Costituzioni è, più che il punto d’arrivo di una rivoluzione già compiuta, il punto di partenza di una rivoluzione (o di una evoluzione) che si mette in cammino.

in   Il Fatto  16/settembre/2016

 

Vedi:  Il Cantore della Resistenza: PIERO CALAMANDREI

Il disobbediente civile visionario

Il governo riparta dalla Costituzione


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