Intervista ad Augusto Cavadi, filosofo, saggista e autore di numerose opere sulla cultura mafiosa.

L’analisi del fenomeno mafioso svela un inquietante paradosso: gli uomini di “Cosa Nostra” sono, nella quasi generalità, cattolici e, non di rado, credenti pieni di fervore. Come è possibile ciò? Come si spiega l’ostentata religiosità degli “uomini d’onore”? A questi interrogativi risponde Augusto Cavadi (nella foto), sociologo e teologo palermitano, nel suo recente “Il Dio dei mafiosi”, edito da San Paolo.

Il suo ultimo libro si intitola “Il Dio dei mafiosi”. Perché questo titolo?
La cultura mafiosa è un insieme di principi, di simboli, di linguaggi, di codici etici. Io ho cercato di mettere in evidenza che cosa pensano i mafiosi su Dio, su Cristo, sulla chiesa, sui santi e quindi ho cercato di fare una ricerca sulla “teologia mafiosa”. In questo senso il titolo mi è venuto abbastanza spontaneo.Quello di cui parla è il Dio della Bibbia, un Dio che è, ad esempio, non violento. La mafia, al contrario, è un’organizzazione estremamente violenta. Allora, com’è possibile che si impadronisca di quel Dio?
Innanzitutto, il Dio della Bibbia non è un Dio non violento, bensì – come ci hanno insegnato ad esempio gli studi di Giuseppe Barbaglio – un Giano bifronte : nei sette-otto secoli in cui la Bibbia è stata scritta, noi abbiamo sia il volto di un Dio di misericordia e tenerezza, sia l’immagine di un Dio geloso e vendicatore. In secondo luogo, il mafioso non ha un rapporto diretto con la Bibbia, bensì un rapporto mediato dalla teologia cattolica. E in questi venti secoli la teologia cattolica non ha contribuito a sciogliere l’equivocità del discorso biblico, anzi, semmai, lo ha accentuato. Dunque, l’ambiguità già presente nella Bibbia e la mediazione della teologia cattolica, spiegano come il mafioso possa non avvertire l’incompatibilità fra la sua mentalità e la Bibbia.

Quali sono le caratteristiche della “teologia” dei mafiosi?
Una delle cose che mi impressiona di più sono le dichiarazioni di alcuni mafiosi che dicono, quando decidono di uccidere qualcuno: “Deve capire che io sono come Dio: posso dare e togliere la vita a piacimento”. L’immagine è quella di un Dio arbitrario, che non ha nessuna cura, nessuna preoccupazione per l’uomo: un Dio che dà e toglie la vita a piacimento. È un Dio più padrino che padre, che incarna un’immagine di potere umano simile al potere che il boss esercita e che vuole esercitare sempre di più. Non a caso alcuni grandi capi mafia sono definiti “padreterni”…

Come mai la chiesa accetta che la mafia si impossessi di elementi importanti della teologia cristiana per giustificare la sua violenza e intolleranza?
La mafia è una realtà militare, sanguinaria, ma è anche un sistema di potere politico, culturale, sociale. La chiesa cattolica, almeno in Sicilia, è stata abbastanza propensa a condannare le bombe, a condannare gli omicidi, a condannare la mafia in quanto realtà sanguinaria che spara e che uccide. Tuttavia stenta a individuare l’altro volto della mafia, che è il sistema di potere. La chiesa riceve molti favori e molto denaro da politici cattolici che hanno costruito la loro fortuna elettorale sui rapporti con la mafia e per finire rimane abbagliata da questo fiume di favoritismi e perciò tace. Da questo punto di vista ha probabilmente ragione il vescovo di Trapani che in documento privato – che però poi è stato, contro la sua volontà, reso pubblico – diceva: “Noi vescovi siciliani stiamo vendendo la primogenitura per un piatto di lenticchie”, cioè per questo profluvio di denaro pubblico che viene da politici che sono amici dei mafiosi e amici dei preti e che quindi costituiscono oggettivamente un ponte fra la chiesa e la mafia.

Ci sono però anche preti che si oppongono alla mafia e che hanno pagato a caro prezzo la loro scelta. Che peso ha la loro testimonianza in Sicilia?
Sono delle minoranze profetiche, il volto pulito della chiesa. La chiesa cattolica non li condanna e non li esalta. E non permette loro di intraprendere una carriera all’interno del mondo ecclesiastico.

Quello che lei ha scritto non è un libro di sociologia, o di politica, ma è un libro nel quale si delinea ad esempio una teologia non mafiosa o antimafiosa. Quali sono i criteri che contraddistinguono una teologia “antimafiosa”?
Una teologia antimafia o, come preferisco dire io, oggettivamente incompatibile con la mafia, sarebbe una teologia – detto con uno slogan che, mi rendo conto, è un po’ brusco – meno cattolica e più evangelica. Io ritengo infatti che una chiesa che fosse organizzata in maniera più fraterna, più democratica, più attenta ai deboli, meno preoccupata di avere un’influenza politica nella società e più preoccupata invece di annunziare nella libertà il Cristo, diventerebbe gradatamente una chiesa poco interessante per i mafiosi. Il mafioso ha un fiuto speciale per il potere, lo cerca costantemente. E come non si affeziona a nessun partito se non quando il partito diventa di maggioranza, e di governo, non ha nessun motivo di affezionarsi a una chiesa piuttosto che a un’altra se non nella misura in cui quella chiesa è una struttura di potere e quindi può essere un’alleata nella ricerca del consenso sociale.

Lei sostiene che in Sicilia sta crescendo un certo disinteresse, un certo disamoramento nei confronti della lotta per i valori della società civile. È così?
Diciamo che in questo campo i segnali sono contrastanti. Da una parte la Sicilia sta subendo quell’ondata europea o forse occidentale di disaffezione nei confronti delle grandi questioni collettive, delle grandi questioni sociali e politiche: e allora è chiaro che questa disaffezione in generale nei confronti della politica fa il gioco della mafia che appunto non è soltanto una banda di criminali che interessa l’ordine pubblico, ma è un sistema di potere all’interno del tessuto democratico. Va però aggiunto che per fortuna anche in Sicilia ci sono delle minoranze critiche, delle minoranze morali – penso ai ragazzi di “addio pizzo” che sono riusciti a coinvolgere anche gli adulti imprenditori, la confindustria siciliana che per la prima volta da quando esiste dice “se uno dei nostri soci paga il pizzo noi lo espelliamo dalla confindustria”. Non so quanto questo sia efficace dal punto di vista strategico, sicuramente lo è tantissimo dal punto di vista simbolico.

Si può dire che una parola chiave nella lotta contro la mafia potrebbe essere quella della disobbedienza?
Sì, indubbiamente, purché non si riduca la disobbedienza a un fatto puramente pedagogico, o disciplinare. Certo, è importante raggiungere l’autonomia che permette di dire di no, la capacità di trasgredire gli ordini ingiusti, ma occorre andare più a fondo. Nel mio libro, mi chiedo se i fondamenti teologici dell’obbedienza – penso ad esempio all’episodio in cui Dio chiede ad Abramo di sacrificare Isacco, o al papa che dice che attraverso di lui parla lo Spirito Santo – non debbano essere messi in discussione. Non credo che l’unico atteggiamento lecito per un credente debba essere quello di assentire e non capisco perché l’assenso debba essere sempre considerato più meritorio del dissenso. Se non si sradica il fondamento teologico di questa mentalità, poi sul piano operativo, sul piano pedagogico, non riusciamo più a incidere e possiamo soltanto operare dei ritocchi secondari.

Augusto Cavadi, quella contro la mafia è una battaglia che si può vincere?
Se per mafia intendiamo l’organizzazione “cosa nostra” costituita da cinquemila uomini d’onore che hanno il loro regolamento, il loro patrimonio linguistico, la loro organizzazione militare, è indubbio che, come diceva Falcone, si tratta di una realtà umana che ha avuto una data di nascita e avrà una data di morte. Se però il contesto istituzionale, economico e culturale non cambia, potremmo assistere alla morte di “cosa nostra” e nel contempo alla nascita di organizzazioni analoghe. Non dimentichiamo che “cosa nostra” è diventata un modello per le mafie colombiane, cinesi, giapponesi, albanesi, africane che hanno riprodotto con alcuni ritocchi l’essenza della struttura mafiosa .

 

www.voceevangelica.ch 10-10-2010

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