In una ben ordinata repubblica la bagarre istituzionale montata intorno al Presidente della Camera dei deputati sarebbe impensabile. Ma dalle nostre parti si inventa ogni giorno una qualche “costituzione materiale”, sì che siamo obbligati non solo a richiamare i dati costituzionali corretti, ma soprattutto a segnalare le forzature e i rischi grandi delle pretese di questi giorni, che tendono, una volta di più, ad eliminare persone e istituzioni che sono percepite come intralci sulla strada sempre più accidentata della ormai sconquassata (ex?) maggioranza di governo.La prima considerazione, allora, richiama una tecnica ben conosciuta in politica, quella di inventarsi un nemico interno o esterno per distogliere l’attenzione dalle difficoltà reali. Prigioniera di scandali gravi, falcidiata dalle inevitabili dimissioni di due ministri, sconfitta in Parlamento su questioni come quella della legge bavaglio, incrinata nel collante finora rappresentato dal potere assoluto di Berlusconi, la maggioranza uscita vittoriosa dalle elezioni del 2008 sfugge alla resa dei conti politici e dirige il fuoco mediatico su Gianfranco Fini, concentrato di tutti i mali, sì che, una volta caduta la sua testa, si tornerebbe nel migliore dei mondi.
Ma questa non è soltanto una impostazione palesemente pretestuosa. Com’è altre volte avvenuto in questa sciagurata stagione politica, l’interesse di breve periodo di una persona o di un gruppo non esita di fronte alle spallata istituzionale, proseguendo in una strategia che sta riducendo il nostro sistema ad un cumulo di macerie.

Elementari regole di diritto parlamentare dovrebbero insegnare che il presidente del Senato o della Camera non possono essere sfiduciati o essere costretti alle dimissioni. La ragione di questa regola è evidente. Solo così l’alta funzione di dirigere una assemblea parlamentare, nell’interesse dell’assemblea stessa e non di una sua parte, può essere sottratta a pressioni, non dirò a ricatti, tendenti proprio a distorcere la funzione di garanzia, che esige distacco in primo luogo dai gruppi che lo hanno eletto. Il potere di questi gruppi si esaurisce nel momento dell’elezione. Lo sanno benissimo quelli che, all’interno della stessa maggioranza, mantengono senso dello Stato e rispetto delle istituzioni, come Giuseppe Pisanu, che non a caso ha liquidato ieri con poche parole la tesi delle dimissioni necessarie del presidente della Camera. E, invece, in questi giorni è stata sostenuta la tesi, francamente eversiva, secondo la quale il presidente della Camera sarebbe “il garante dell’attuazione del programma di governo”, tramutando così una carica istituzionale di garanzia in un semplice terminale della volontà governativa.

Non v’è bisogno d’invocare la separazione dei poteri per accorgersi dell’improponibilità di questa tesi, che conferma la voracità proprietaria di un Berlusconi che vuole ingoiare tutte le istituzioni. Peraltro, anche i precedenti evocati con molta approssimazione, come le dimissioni di Sandro Pertini dopo la fine dell’unità socialista, provano se mai il contrario, visto che, respingendo quelle dimissioni, la Camera ribadì proprio l’irrilevanza delle vicende successive al momento dell’elezione del presidente. A questa forzatura se ne è aggiunta una seconda, gravissima, con l’annuncio di Berlusconi e Bossi di recarsi dal presidente della Repubblica per chiedere appunto le dimissioni di Fini. Solo una sgrammaticatura istituzionale, l’ennesima? Molto peggio. I due nominati, per quanto abbiano dato infinite prove di totale insensibilità istituzionale, sanno benissimo che mai un presidente rigoroso come Giorgio Napolitano potrebbe dare il pur minimo ascolto ad una richiesta del genere.

E allora? Quell’annuncio era rivolto all’opinione pubblica, per dar ad intendere che, se lo volesse, il presidente della Repubblica potrebbe porre fine a questa vicenda. Una volta divenuto chiaro che non è possibile alcun intervento di Napolitano, rimarrebbe comunque un fondo torbido, una sorta di sciagurato ammiccamento che allude ad un filo che lega presidente della Repubblica e presidente della Camera. Non sarebbe una novità. In modo sfrontato, e di nuovo ignorante d’ogni regola istituzionale, Berlusconi accusò pubblicamente Napolitano di non essere intervenuto sulla Corte costituzionale per impedire che fosse dichiarato illegittimo il Lodo Alfano.

Anche il presidente della Repubblica è percepito come un intralcio, al quale possono essere rivolte richieste “irrituali” o vere e proprie minacce, come ha fatto Bossi evocando un milione di persone che arriverebbe a Roma per imporgli lo scioglimento delle Camere. La vicenda Fini dimostra una volta di più quanto sia profondo il malessere istituzionale. Per questo nessuna compiacenza è possibile. Non si tratta di difendere una persona, ma di recuperare quel po’ di senso delle istituzioni senza il quale la democrazia muore. Siamo ancora in tempo.

Stefano Rodotà     la Repubblica 8 settembre 2010

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