Il taglio dei parlamentari corrisponde al crollo dei votanti e degli iscritti ai partiti. con l’effetto di dare più potere all’élite

Si potrebbe evocare la solitudine dei numeri esigui. Meno votanti alle elezioni. Meno tesserati ai partiti. Meno manifestanti in piazza. E ora meno deputati e senatori in Parlamento. Un costante segno meno accompagna ormai l’evoluzione della nostra democrazia, consegnandoci a un destino di malinconica contrazione di tutti i suoi numeri.

Ora, si dirà che forse il nostro Parlamento era fin troppo affollato, e per giunta che i parlamentari delle ultime legislature non hanno propriamente brillato per le loro qualità politiche. È vero. Ma è anche vero che sembra di ben corto respiro l’idea che a tutti i problemi di funzionamento della democrazia si risponda inevitabilmente prospettando soluzioni che ne riducono la densità. Quasi che la radice di tutto fosse nell’essere in troppi a occuparsi di politica.

Il dilemma tra quantità e qualità attraversa da sempre il destino delle democrazie. Fondate appunto sul primato dei numeri, e dunque propense a farsi forti di numeri sempre più cospicui. Questione che da noi, peraltro, ha sempre avuto un valore particolare. Così, ci siamo potuti a lungo vantare del fatto che i nostri elettori accorressero massicciamente alle urne, e che i partiti a suo tempo si facessero forti di interminabili elenchi di soci. Erano quelle cifre che sembravano certificare all’epoca la buona salute del nostro sistema politico.

Naturalmente tra i numeri e i loro valori poteva esserci un certo attrito. Non tutte le quantità racchiudevano un merito, e non tutte le qualità avevano bisogno del suffragio delle cifre. Anche nella politica di prima capitava che i voti talvolta fossero pesati, e non solo contati. Ma la conta aveva sempre una sua solennità, e finiva per essere il riconoscimento dovuto all’ultimo degli elettori che il suo diritto non era mai meno significativo di quello di tutti gli altri.

Poi, con gli anni, il valore di tutte quelle cifre si è per così dire capovolto. Da un certo momento in poi, la troppa partecipazione ha evocato lo spettro di una politica a troppo alta densità ideologica e/o clientelare. La troppa rappresentanza ha lasciato intendere che a vivere di politica erano (eravamo) in troppi. Il tesseramento si è gonfiato di iscritti fantasma-decisamente troppi anche quelli.

E così, poco a poco, s’è diffusa l’idea che una politica moderna doveva innanzitutto essere sfrondata dei suoi eccessi, resa più scarna ed essenziale, velocizzata nelle sue procedure, accentrata nei suoi poteri di comando. Idee e intenzioni che hanno goduto di alterne fortune, ma che hanno dato una robusta mano al racconto populista che nel frattempo metteva radici.

Peccato che a quel punto i populisti ne abbiano ricavato un vantaggio, ma anche una contraddizione. Infatti da un lato essi immaginano che la democrazia debba essere una sorta di “agorà” alla quale partecipano tendenzialmente tutti, senza passare dal collo di bottiglia delle procedure della democrazia rappresentativa. Una democrazia dai numeri infiniti, per così dire.

Dall’altro invece si fanno un punto d’onore di ridurre la politica ai suoi minimi termini, offrendo ora alla pubblica opinione lo scalpo di quei parlamentari in meno che la riforma costituzionale si appresta a cancellare a partire dalla prossima legislatura. Una democrazia di numeri più piccoli, appunto.

La riforma in cantiere finisce così per mettere simbolicamente in conflitto queste due opposte ragioni del populismo. Infatti, mano a mano che i numeri si rimpiccioliscono, diventa inevitabile il consolidarsi di élite ancora più strette. E dunque, proprio chi si è offerto come antidoto alle élite si trova ad adoperarsi per restringere ancora di più le platee decisionali, fino a fare proprio il mantra secondo cui meno siamo e meglio stiamo.

Aprire una seria discussione su questa contraddizione servirebbe ai 5 stelle per chiarire meglio se stessi, e servirebbe al Pd per chiarire meglio il rapporto con loro. Ma non sembra alle viste né l’una né l’altra cosa.

Marco Follini       L’Espresso  6/10/2019


 

A chi giova davvero il taglio dei parlamentari

Presidenzialismo, federalismo, democrazia maggioritaria. Non erano solo tre differenti soluzioni «tecniche», erano anche espressioni di differenti culture politiche e di differenti aspirazioni sociali. E sono stati tre fallimenti. Hanno lasciato dietro di loro il deserto. Nessuno può più credibilmente azzardarsi a formulare progetti istituzionali ambiziosi.

Nessuno tranne i 5 Stelle. Il loro progetto (certo non da realizzare immediatamente) è la democrazia diretta in versione digitale, è il depotenziamento massimo della democrazia rappresentativa/parlamentare.

La riforma messa in cantiere (la riduzione dei parlamentari) nonché i penosi argomenti che la accompagnano (sui risparmi che deriveranno dal «taglio delle poltrone») sono coerenti con una visione del mondo per la quale i Parlamenti, e quello italiano in particolare, sono potenziali luoghi di malaffare.

Di fronte a questo attacco, culturale, politico e istituzionale, alla democrazia parlamentare, gli altri, per lo più, balbettano o assumono posizioni poco credibili. Balbettano quando tentano di normalizzare la riforma dei 5 Stelle, costituzionalmente ineccepibile nelle forme, ma eversiva nelle aspirazioni.

dall’articolo di  Angelo Panebianco    il Corriere  7/10/2019


 

Il taglio dei parlamentari non è mai un guadagno

I conteggi che girano sono solo demagogia che alimentano i falò dell’antipolitica

Ma davvero il taglio di 345 parlamentari fra Camera e Senato è una riforma epocale? E’ curioso che a crederlo siano soltanto i Cinque Stelle che ne hanno fatto una delle loro bandierine. Gli altri si sono sempre accodati per ottenere in cambio da M5S il supporto ad altre manovre che interessavano loro di più, come è stato nel caso della. Lega, oppure perché era il prezzo che bisognava pagare per averli alleati nella maggioranza di governo, come è il caso del PD+LeU.

Non c’è grande condivisione in giro, sebbene i penta stellati si diano da fare per sostenere che si guadagneranno un sacco di soldi: l’ultimo annuncio trionfale parla di un miliardo di risparmi in 10 anni con cui, spiegano da bravi ragionieri della domenica sul loro blog, si possono realizzare 133 nuove scuole, o 67 mila aule, acquistare qualcosa come 13 mila ambulanze. Oppure assumere 25 mila infermieri oli mila medici. Anche i trasporti potrebbero giovarsi di questo miliardo di nuove risorse con 133 treni nuovi.

RISORSE IN DIECI ANNI

Sono chiaramente conteggi da demagoghi in libera uscita, perché stiamo parlando di risorse rosicchiate in 10 anni, dunque di cifre che volendo si possono ricavare da altre fonti, e non è chiaro se si possono fare tutte le cose che elencano o se è una lista all’interno di cui poi si dovrà scegliere. La domanda da porsi è differente e suona così: ma davvero i soldi per far funzionare la rappresentanza popolare, cioè la democrazia., sono soldi buttati che sarebbe meglio spendere per altre cose?

Argomentando come sembrano fare i Cinque Stelle, si tende a far passare il messaggio che nella sostanza i parlamentari sono dei parassiti che pesano sulla spesa pubblica senza che ci sia alcun ritorno. Sarebbe curioso ricordare che tutti i regimi antidemocratici hanno sostenuto cose simili, salvo poi guardarsi bene dall’abolire i parlamenti in cui far sedere, pagandoli, i loro uomini.

Per onestà si deve ricordare che questo argomento del “taglio delle poltrone” non è stato usato solo dalle destre o dai Cinque Stelle. Il PD di Renzi, quando faceva propaganda per il sì al referendum sulla riforma costituzionale del suo governo che tagliava un po’ di seggi, soprattutto al Senato, faceva ricorso in un volantino ufficiale alla stessa argomentazione: stiamo tagliando i costi della politica. Inutile poi lamentarsi se queste affermazioni diventano un luogo comune a cui si deve pagare un tributo.

IL CALCOLO PERICOLOSO

Ovviamente il numero attuale dei parlamentari italiani non è un comandamento scritto nelle Tavole della. Legge: si può benissimo discutere se sia congruo rispetto al fine che si vuole raggiungere, cioè dare articolata rappresentanza al sentire politico del paese. Quel che è pericoloso è stabilire che la valutazione di questa congruità sia da misurare sulla base del “quanto ci costa”, perché non stiamo parlando né di una spesa voluttuaria né di una spesa inutile.

LA RESA TATTICA DEL PD

In una democrazia matura suscita sospetto che si sia varata una riconsiderazione del numero dei parlamentari senza alcuna riflessione sulle sue implicazioni, solo per portare un po’ di fascine sul falò dell’ antipolitica che è già ben alimentato.

La resa del PD a questa demagogia è comprensibile nella contingenza tattica, visto il potere di ricatto che ha un M5S fra il resto in grande tensione per le sue fibrillazioni interne. Mettere a rischio il governo in questa fase delicata, dopo le tempeste agostane e con la. legge finanziaria che avvia, il suo iter, era oggettivamente impensabile. Tuttavia c’è da chiedersi se sia sufficiente a salvare il salvabile convincersi che la faccenda sarà regolata con una ennesima riforma del sistema elettorale.

IL MANTRA POPULISTA

Dubitiamo che con questa operazione si possa veramente disinnescare il messaggio antipolitico che viene dal taglio dei parlamentari così come si sta facendo. Innanzitutto perché si tende a riforme che sono a loro volta dei mantra populisti, si veda l’ipotesi dare il voto per il Senato anche ai diciottenni.

Qui non è questione che davvero restringendo il voto a classi di età un po’ più mature si abbia un tipo di rappresentanza almeno un poco diverso secondo l’illusione che al proposito ebbero i Costituenti. Si tratta piuttosto di prendere coscienza che si va ad accentuare il carattere di “camera fotocopia” del Senato, rafforzando un bicameralismo paritario che, quello sì, è uno spreco di risorse istituzionali senza giustificazione eccetto in casi molto limitati (quando la, doppia lettura di una legge molto importante può essere davvero un momento di decantazione).

LA SFIDA TRA FAZIONI

Per il resto il lavoro per la riforma elettorale verrà letta dalla pubblica opinione come l’ennesima sfida fra, fazioni ciascuna interessata a trovare il meccanismo (la porcata, per dirla col costituzionalista Calderoli) che la favorisca a detrimento dell’avversario.

Non è un modo per stabilizzare un paese che ha grande necessità di ritrovare un equilibrio nella sua convivenza e che deve dunque rimodulare i suoi strumenti di governo in vista di questo fine. Una classe politica che vive nel’autoreferenzialità delle convention dei suoi fan (regolarmente scambiate per “il popolo”) non riesce a prendere coscienza di questa necessità, ma prima o poi sarà costretta a farlo dalla delegittimazione che travolgerà, tutti.

Perché populisti e demagoghi si illudono sempre di poter delegittimare gli avversari a proprio vantaggio, ma dovrebbero sapere che quella è una valanga che messa a rotolare alla fine travolge tutti.

Paolo Pombeni     Il Quotidiano del Sud   28/9/2019


Vedi:  Blindare la Carta, la riforma che manca

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