Il populismo ha realizzato, a sua insaputa, una delle profezie dell’autore del “Capitale”. Viviamo infatti in un mondo in cui i governanti sono schiavi degli umori e dell’applausometro dei follower: un insieme di monadi cariche di odio. Le persone possono finalmente esprimere le loro opinioni, hanno gli strumenti e il tempo per farlo, e queste opinioni sono per lo più manifestazioni di paura, odio, invidia.

Immagino l’obiezione: non è granché, come comunismo realizzato. No, in effetti non è granché, lo sapeva e lo prevedeva anche Marx, che aveva concepito la dittatura del proletariato come fase intermedia nella transizione fra capitalismo e comunismo, e ne riconosceva con esattezza la carica d’odio (aveva in mente la Comune di Parigi). Ora, che cosa sono i populismi contemporanei, se non la realizzazione della dittatura del proletariato? Da questo punto di vista, non c’è nulla di più ingannevole del paragone tra i populismi mediatici e il fascismo.

Quest’ultimo era un governo autoritario, come del resto lo stalinismo. Portava avanti un progetto politico incurante delle idee dei governati, e questa, nel breve termine, era la sua debolezza rispetto alle democrazie liberali, che dovevano fare i conti con l’opinione pubblica. Ma per quanto influente fosse questa opinione resta che Churchill, nel luglio del 1940, con la Francia arresa, l’Urss alleata alla Germania, gli Usa neutrali, poté rifiutare le offerte di pace di Hitler. Oggi non avrebbe potuto, e, sarebbe stata una eventualità molto peggiore della Brexit. Ecco il paradosso del populismo.

Panopticon, teorizzato dal filosofo inglese Jeremy Bentham (1748- 1832)

Nel momento in cui le merci più pregiate sono i documenti, diventa facile proporre un programma elettorale vincente. Questo però non garantisce a chi va al governo un qualche potere dispotico, magari rafforzato dal controllo a mo’ di panopticon che sbircia nella vita dei governati. Succede esattamente il contrario.

Il panopticon è un panopticon privato, non statale, ed è un panopticon capovolto, per cui il governante è lo schiavo dei sondaggi e del web che l’hanno portato al potere, e dunque deve eseguire gli ordini di una moltitudine che non è classe, e meno che mai è popolo, bensì una somma di monadi tenute insieme dall’odio e dall’invidia sociale.

I governati governano i governanti, e questo non perché questi ultimi abitino una qualche casa di vetro, ma semplicemente perché il Palazzo conosce davvero troppo bene cosa vogliono gli elettori.

Si è detto che i politici attuali ricordano gli influencer sul web. Il paragone va preso alla lettera: come questi, sono l’applausometro degli umori dei follower, dunque a ben vedere sono degli influenced. Questa non è la realizzazione della democrazia e della politica, ma è oclocrazia (concretamente: vi fareste governare da quelli che posteggiano in terza fila? Bene, l’oclocrazia è questo).

Quest’odio e questa invidia hanno bersagli inadeguati e passatissimi, per esempio le banche, il grande complotto, i poteri forti. Non considerano, ad esempio, che prestano i loro soldi alle banche, mentre regalano i loro dati alle compagnie, e lo fanno probabilmente perché non si rendono conto che si tratta di una ricchezza molto superiore in sé di quanto non lo siano i soldi che mettono in banca. Nulla di più sbagliato, ripeto, del vedere nel populismo un ritorno del fascismo, e uno stato totalitario.

Il fascismo è un governo autoritario e totalitario con una progettualità immensa e catastrofica; il populismo è un governo irresponsabile e parcellizzato, in balia dei molteplici e contraddittori desideri dei suoi elettori. Ossia è la completa mancanza di progetto.

Il vero compito, dunque, è formare noi stessi un progetto, essere capaci di decisioni. Per farlo, è necessario preliminarmente rispondere a un interrogativo. Come mai, se è scomparsa la differenza tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, se l’alienazione è finita, se vige la dittatura del proletariato, le persone sono così arrabbiate?

Banale: perché lavorano gratis, però non lo sanno, tanto è vero che il loro malumore si indirizza verso obiettivi immaginari. Difficile non cogliere l’asimmetria tra dare e avere. I documenti che gli archivi forniscono ai mobilitati sono generali e accessibili a tutti, per definizione: dunque non offrono vantaggi competitivi. Le informazioni che i mobilitati offrono agli archivi sono individuali e accessibili solo a chi li sa maneggiare dunque offrono enormi vantaggi competitivi. Si aggiunga che i mobilitati pagano di tasca loro i mezzi di produzione: apparati e abbonamento con il provider.

Il rapporto tra i mobilitati e le piattaforme riproduce dunque il classico rapporto tra capitale e lavoro, con una variante importantissima, e cioè che qui il lavoro non viene retribuito, e, prima ancora, non è neppure riconosciuto come tale.

Malgrado questo, è sentito sulla pelle delle persone e nella rabbia sociale che è la reazione a un problema che ignora, e di cui avverte soltanto il disagio. I populisti non vedono un punto cruciale: il problema non sta nel capitale finanziario e nella globalizzazione, bensì nella grande asimmetria fra mobilitanti, chi gestisce le piattaforme del web, chi interpreta i dati, e mobilitati, chi naviga sul web.

Mentre si maledicono le banche, non si pensa che i veri “poteri forti” sono altri: Google, Apple, Amazon (e sin qui lo sappiamo tutti); Tencent, Alibaba, Baxt, WeChat in Cina (e questi nomi sono meno noti). E che i più forti tra questi poteri forti sono ignoti ai più, e sono i nomi dei “miner” che scavano i dati e li interpretano: Acsion, Criteo, Equifax, Experian, Quantcast, Tapad – chi li ha sentiti nominare?

E chi ha sentito nominare Privacy International, l’organizzazione che ne indaga e ne denuncia le attività? Si tratta di conoscere e di riconoscere che lo scambio che ha luogo tra le compagnie di gestione e ognuno di noi non è uno scambio equo ma, proprio come nel caso del capitale industriale, comporta una ingiustizia fondamentale, per cui i dati (che costituiscono il capitale del XXI secolo proprio come le merci erano il capitale del XIX secolo e le finanze quello del XX secolo) sono distribuiti in maniera iniqua.

Da parte degli utenti ha luogo una mobilitazione incessante e che non è neppure riconosciuta come lavoro, né da chi lo offre né da chi lo riceve, eppure è lavoro a tutti gli effetti, dal momento che produce valore.

Dalla parte dei gestori, ha invece luogo una capitalizzazione dei dati che produce dei guadagni molto superiori a quelli del capitale finanziario. Riconoscere la natura del plusvalore documediale costituisce un compito filosofico non meno necessario di quello svolto da Marx al suo tempo, ed è preliminare a un’opera ancora più importante, evitare che il Panopticon capovolto paralizzi la democrazia.

Maurizio Ferraris, filosofo          Repubblica 1.2.19

 

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