Le personalità come la sua una volta venivano definite en réserve de la République: autorevoli uomini pubblici a cui ricorrere tutte le volte che la democrazia ne avesse avuto bisogno. La vicenda umana di un grande giurista e di un grande protagonista della sinistra italiana, ci racconta invece degli ostacoli che furono frapposti fra Stefano Rodotà e la Repubblica che egli non poté sempre servire come sarebbe stato necessario. Il suo peccato originale? Essere l’uomo del sì sì no no, costretto a nuotare nelle acque spesso paludose della politica italiana, ben più adatte ai maestri delle ambiguità e dei colpi proibiti.

Anche per questo Rodotà che ne aveva tutte le stimmate non poté mai guidare quella grande sinistra italiana che sarebbe potuta essere e a cui non smise mai di credere. Per non dire delle varie sigle di sinistra (Pds, Ds, Pd) scaturite dal ceppo del vecchio Pci da cui fu tenuto ai margini. A parte qualche incarico onorifico da cui inevitabilmente si dimetteva non sopportando ruoli ornamentali, magari per coprire con il suo indubbio prestigio le altrui manovre. Troppo trasparente, troppo sincero, troppo spigoloso, troppo scomodo per un mondo abituato alle persone comode e che non creano problemi.

Per questo non fu preso in considerazione come presidente della Corte Costituzionale e neppure come giudice della Consulta. Quell’Alta corte che sembrava ritagliata sulla sua storia di Professore, capace di tenere insieme le regole della dottrina e le ragioni più nobili della politica. Anche la nomina a Garante dell’authority sui dati personali fu considerata una specie di premio di consolazione, quando la miopia della politica non permetteva ancora di intravedere i giganteschi problemi che avrebbe avuto sulla privacy (e non solo) l’inevitabile esplosione di Internet.

Rodotà lo capì prima degli altri e le sue relazioni sui rischi globali insiti nella Rete, sull’avvento di un grande fratello capace di stravolgere l’informazione tutta, andrebbero ripubblicate per la loro sapiente preveggenza. Per questo il Professore era molto amato dai più giovani, che ne apprezzavano l’autenticità e dunque di lui si fidavano. Furono i 5Stelle nei giorni difficili del 2013 a comprendere che quel signore dai capelli bianchi e dal pensiero moderno avrebbe potuto essere un eccellente presidente della Repubblica. Ricordiamo tutti Palazzo Montecitorio circondato e in qualche modo abbracciato da centinaia di ragazzi che scandivano il suo nome.

L’eterno cinismo italico non riuscì a trasformare quell’invocazione in una burletta, ma alla fine al Quirinale ci restò Giorgio Napolitano, simbolo di un passato che ritorna e non finisce; quello stesso Napolitano che a Rodotà aveva già tagliato la strada durante le tante guerre a sinistra. Quella stessa sinistra che se si fosse affidata in tempo utile a lui forse non si sarebbe frantumata nelle ambizioni di tanti piccoli leader. Anche al M5S una figura come Rodotà avrebbe fatto bene, aiutando il movimento a maturare, a uscire dal recinto della facile opposizione per misurarsi con le responsabilità di governo. Troppo autorevole. Troppo sincero. Troppo scomodo. Addio a Stefano Rodotà, persona perbene. Per la République una grande occasione perduta.

Antonio Padellaro     Il Fatto  24/7/2017

 

 

Rodotà:   “Hanno tentato di dividerci. La nostra Carta ci ha uniti”

Pubblichiamo l’intervento che Stefano Rodotà ha fatto lo scorso 2 dicembre in occasione della serata “La Costituzione è NOstra” organizzata dal Fatto Quotidiano contro il referendum costituzionale.

Credo che la riunione di stasera sancisca pubblicamente e in modo chiaro che il tentativo di impadronirsi della Costituzione che è in atto da un po’ di tempo è fallito. Questo dobbiamo dirlo, senza voler essere ottimisti, senza voler essere trionfalisti: è fallito. Se guardiamo agli atteggiamenti che vengono tenuti da parte di coloro i quali hanno fatto questo tentativo, c’è una conferma molto evidente. Dobbiamo non essere necessariamente ottimisti o voler dare un senso alle cose che facciamo: questo mi pare un dato di realtà. Il che vuol dire che vale la pena di fare queste cose.

C’è una domanda che viene fatta da tanti. L’altra sera mi trovavo alla facoltà di Economia e commercio e alcuni ragazzi mi hanno chiesto: “Vale la pena di fare queste cose?”. La risposta è sì. Credo che il tentativo di impadronirsi della Costituzione, che è stato condotto con determinazione e aggressività (non ho bisogno di fare riferimenti particolari a come si comporta e a quel che ha detto il presidente del Consiglio), questo tentativo non è arrivato al risultato che si prefiggeva. Questo è il primo elemento che dobbiamo prendere in considerazione.

C’è un dato importante e storicamente significativo: se noi guardiamo a ciò che è avvenuto dal momento in cui la costituzione è entrata in vigore a oggi, in questo momento, in quest’ultima fase – con particolare intensità ed evidenza – i cittadini si sono riconosciuti nella Costituzione. Questo è un dato di novità. Se vogliamo continuare a usare luoghi comuni, c’è stato un boomerang.

Si è cercato di impadronirsi della Costituzione e il risultato è stato quello di richiamare l’attenzione dei cittadini tutti sull’importanza della Costituzione stessa e sulla necessità che rimanga terreno comune, luogo di reciproco riconoscimento. L’ho detto altre volte, lo dico stasera: ritenere che sia un terreno comune non significa che la discussione sia preclusa.

Una seconda considerazione. Le ragioni politiche contingenti – che ci sono sempre – non possono mai essere adoperate come giustificazione del voto o dell’atteggiamento favorevole a una cattiva riforma costituzionale. Le ragioni politiche contingenti ci sono, vanno valutate per ciò che sono effettivamente, ma quando siamo di fronte al tema costituzionale il primo problema è quello di far sì che la Costituzione rimanga luogo di confronto continuo e comune.

In altri termini, il rischio è quello di introdurre elementi divisivi. Credo che uno sguardo alla storia sia sempre importante. L’assemblea costituente fu molto consapevole di tutto questo. Il lavoro di scrittura della Costituzione – qualcuno dice ‘è riuscito a sopravvivere’, ma è una parola non adeguata – è riuscito a continuare anche dopo l’estromissione del Partito comunista e del Partito socialista dal governo. C’era la consapevolezza che si trattava di qualcosa che andava oltre il contingente. Noi non possiamo fermarci alle ragioni politiche contingenti. Ce ne sono tante, alcune sono anche esposte in maniera abbastanza dignitosa. Ma tutto questo non consente di ritenere che queste ragioni possano spingere a dire un sì e a non opporsi in maniera determinata a una riforma cattiva. L’abbiamo detto in vario modo.

Alcuni hanno fatto in questo periodo delle dichiarazioni a mezza bocca, o con un tanto di strumentalità e di astuzia, dicendo “io dico sì, sapendo che”: non si dice “sì, sapendo che” quando è in ballo la Costituzione. Sono dati da una parte di onestà intellettuale, dall’altra di moralità pubblica. Ci sono elementi che non possono essere messi in discussione.

C’è un terreno comune, l’ho detto, c’è un riconoscimento reciproco del dovere di confrontarsi con maggiore intensità quando le questioni sono quelle di cui stiamo parlando.

Il problema ora è quello del non dividersi. All’assemblea costituente, fu possibile non dividersi sui temi fondamentali. Se andate a guardare quale fu il voto finale sulla Costituzione, vi renderete conto che le ragioni contingenti non impedirono questo grandissima confluenza proprio sul voto finale. In questo momento uno dei problemi maggiori è esattamente quello dell’introduzione di elementi di divisione in situazioni in cui la divisione non può essere il criterio al quale fare riferimento. Una cosa è il confronto, che è necessario e indispensabile, altra cosa è la divisione: da una parte ci sono quelli che sono riconoscibili come coloro i quali appartengono alla discussione pubblica comune, dall’altra ci sono quelli che vengono esclusi. L’aggressività che manifesta in tutte le occasioni – e credo che non gli stia giovando molto – il presidente del Consiglio non va nella direzione giusta, non va nella direzione di un presidente del Consiglio che ha ruoli istituzionali particolari. Sono più i tentativi di coprire attraverso l’aggressività le difficoltà interne al governo che non quelli di parlare ai cittadini.

Sono elementi che dobbiamo considerare. Abbiamo avuto e abbiamo una grande forza che deriva dall’aver continuato a ragionare. Tutto quello che ho sentito stasera è ragionamento. Non tutti sono partiti dalle stesse premesse, non tutti arriveranno alle stesse conclusioni. Nel momento in cui la divisione, l’aggressività, il mancato riconoscimento dell’altro sembrano essere divenuti regole, ci sono coloro i quali ritengono e testimoniano con ciò che fanno ogni giorno la necessità del confronto continuo. Mi pare che sia l’unica importante considerazione da mettere al centro della nostra riflessione. Siamo qua stasera per fare questo: non ci sono aggressioni, che invece stanno diventando anche un po’ patetiche – chi ha poco da dire di solito urla. Abbiamo sentito molte urla e poche parole. Stasera siamo tornati al ragionamento.

Stefano Rodotà           Il Fatto  24 giugno 2017

 

vedi:  Elogio del moralismo

Solidarietà, la più fragile e necessaria delle utopie

Perchè laico

Il dovere dell'onore

L’invettiva contro i ladri che inguaiò Stefano Rodotà

Rodotà: La democrazia è delle persone


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