Saint Denis, il blitz della polizia francese nel quartiere a nord di Parigi il 18 novembre

Daesh, l’Is, è la malattia autoimmune dell’Occidente. È la reazione imprevedibile ma fisiologica dentro il copro di un Occidente cosiddetto civilizzato. Dal corpo umano, d’altra parte, si impara quasi tutto, ad avere voglia di studiarne il funzionamento. Perché il corpo altro non è che il dispositivo che sta dietro ogni azione dell’uomo. Prima delle sue parole, prima di qualsiasi apparato ideologico con cui l’umanità intera cerca di impacchettare il mondo. Se la retorica del nemico, dell’altro da noi, è l’ordinaria procedura retorica d’emergenza, è dentro il corpo dell’Occidente capitalistico che varrebbe la pena dare un’occhiata. A interrogarlo, risulterebbe evidente che è il nostro sistema immunitario — cioè il sistema con cui pervicacemente ci difendiamo — a produrre la propria, apparentemente incontrollabile, minaccia.

L’Occidente ha costruito giorno dopo giorno un organismo che si reggeva su pochi fondamentali elementi: il profitto a tutti i costi, la superiorità arrogantemente identitaria della ragione, la tecnologia come via privilegiata e remunerativa verso la cosiddetta libertà, e il trionfo di una sorta di prepotente evoluzionismo democratico, ovvero l’idea che quello che non è come noi è inferiore a noi. Tutto ciò si è concretizzato in una pratica quotidiana fatta di sfruttamento del pianeta, morte di migliaia di persone innocenti in quasi ogni zona non allineata del mondo, tutte vittime collaterali di procedure mirate al profitto: la corsa agli armamenti, ai giacimenti petroliferi, alle materie prime, imprescindibili nella transazioni che nutrono il corpo del mondo in cui viviamo.

Nel quotidiano, abbiamo avuto la sbornia tecnologica, l’idea lisergica che libertà è dimenticare tutto quello che succede fuori, è chiudersi a chiave in un narcisistico suicidio collettivo, è l’abolizione di qualsiasi utopia. L’utopia. E proprio dell’aver rinunciato all’utopia che paghiamo lo scotto. Abbiamo pensato di poterne fare a meno, abbiamo pensato di esserne il coronamento, la realizzazione, e l’abbiamo messa in cantina. Ci siamo dimenticati che senza un pensiero utopico, senza un progetto collettivo – politico o religioso – che canalizzi e dia senso all’agire dei singoli, ciascuno resta solo e il mondo si ammala. Si ammala per una ragione tanto semplice quanto banale.

Perché si ammala il tempo: il futuro scompare e il passato diventa inservibile, buono per le ricorrenze. L’Occidente capitalista ha sostituito l’utopia, che è un — per quanto chimerico — punto d’arrivo, con la ricerca del profitto, che è solo un processo. Dell’utopia si è tenuto la retorica, proponendo la Felicità come ricompensa di ogni esborso in denaro, di ogni merce acquistata. Perché funzionasse, quella Felicità doveva però avvizzirsi poco dopo, la carrozza diventare zucca, la miseria riaffacciarsi a chiederne un’altra più bella perché quella di prima aveva, con ogni evidenza, un difetto.

Per tutte queste ragioni, l’Occidente non era preparato all’idea che la tecnologia, invece di narcotizzare le giornate di milioni di persone, potesse trasformarsi in un’arma proprio contro chi l’aveva inventata, dando il via a orrende carneficine, uccidendo persone innocenti dentro i suoi stessi confini. Per queste stesse ragioni, l’Occidente non era pronto a fare i conti con l’idea che si possa accettare di morire per un obiettivo che, per quanto spaventoso, non è un obiettivo individuale. È a tutto ciò che assistiamo, immobilizzati, dopo avere buttato nel cestino le utopie. Le abbiamo abbandonate a favore di una blanda manutenzione della solitudine e della tristezza quotidiana, le uniche che assicurano un consumo regolare. Ed è invece un’altra utopia — seppure terribile — quella che oggi ci mette in ginocchia. E dopo spara.

Andrea Bajani     il manifesto 26.11.15

 

 

Parigi, la guerriglia che non c’era

Stato d’emergenza. Quella normalità della vita quotidiana da sacrificare per alimentare il bacino di “martiri” di Daesh

Il 29 novembre a Parigi non vi è stata alcuna «guerriglia urbana», ma uno scontro di assai modeste proporzioni tra un folto schieramento di polizia e un limitato numero di manifestanti. Trecento fermati, nessun ferito rendono alquanto evidente la natura e l’effettiva entità degli eventi. Il divieto di manifestare, contenuto nello stato di emergenza decretato dal presidente Hollande, è un invito irresistibile ad essere trasgredito. Per via pacifica, e comunque illegale, o scontrandosi con le forze di polizia. Entrambe le cose sono puntualmente accadute. C’è il precedente di Ankara, è vero, ma gli uomini dell’Is hanno dimostrato di poter scegliere tra innumerevoli concentrazioni di persone (mercati, chiese, locali pubblici, aerei, metropolitane, stadi) tra le quali seminare morte. Luoghi di quella normale vita quotidiana alla quale, tutti lo giurano, nessuno potrà costringerci a rinunciare.

Ne consegue che la protesta di piazza contro le politiche nazionali o “globali” che siano, contrariamente allo shopping e alla frequentazione dei bistrot, non è considerata appartenere alla normalità della vita democratica, allo stile di vita squisitamente occidentale. Non è dunque una questione di sicurezza. O almeno non lo è in prima istanza. Si tratta piuttosto di quella pretesa di obbedienza e disciplina nazionale, di fiducia incondizionata nelle scelte di chi comanda che i governanti pretendono in caso di guerra o di altre emergenze imparentate più o meno legittimamente con questa parola.

E non è questa l’ultima ragione per la quale si sono combattute e si combattono le guerre. Magari quando la popolarità di un presidente vacilla pericolosamente sul fronte politico interno. Come nel caso del pallido Hollande, ma anche di Angela Merkel che, incalzata da destra e da componenti del suo stesso partito per la politica sull’immigrazione cui ha ultimamente legato la sua immagine, si aggrega infine all’impresa siriana. L’obiettivo non rinviabile di distruggere Daesh è dunque inquinato e indebolito da un fitto intrico di interessi ed egoismi nazionali, tanto in patria quanto in Medio oriente.

Quanto alla normalità della vita metropolitana in Occidente, anche su questo fronte non sembrano esserci solide garanzie. Bruxelles viene trasformata per diversi giorni in una città fantasma per fermare 21 persone, 19 delle quali saranno immediatamente rilasciate. Non si scoprono arsenali, né terroristi pronti a colpire, ma l’immagine della capitale d’Europa ridotta a spettrale teatro di guerra resterà a lungo nella memoria. Nessuno sarà chiamato a rendere conto di questa sproporzionata messa in scena o del buco nell’acqua. Ad Hannover, in Germania, viene evacuato uno stadio, messa in stato di assedio una stazione, la popolazione invitata a chiudersi in casa, ma non v’è traccia dell’ambulanza imbottita di tritolo di cui si era andato favoleggiando. Il governatore del Land assicura che non c’è alcun pericolo. Il ministro dell’interno mette in guardia da “altri attentati”. Altri?

Se non è il trionfo dell’Is è certamente quello della stupidità o, peggio, l’esordio di un nuovo stile di governo emergenziale. Per salvare la Libertà, ripetono innumerevoli commentatori, bisognerà pur rinunciare a qualche libertà, prima tra tutte quella di contestare il governo che ci protegge, che ci imbriglia “per il nostro bene”. E, per meglio farlo, come è il caso di quello francese, mette anche mano alla Costituzione, introducendovi strumenti di sospensione dei diritti democratici, che potrebbero presto finire in mani assai poco delicate quali quelle del Front National. Confidiamo nell’impegno preso dal governo italiano di non seguire questa strada.

Se per qualche banale incidente, magari lo zelo repubblicano di un flic, dovesse riesplodere la rivolta nelle banlieus, potremmo tornare ad assistere alle orribili scene dell’ottobre 1961 quando decine e decine di algerini (forse addirittura 300) furono assassinati e gettati nella Senna. Anche allora c’era una guerra. E attentati contro le forze di polizia. E stato di emergenza. Ma Daesh non si interessa alle rivolte metropolitane. E’ nel bacino della frustrazione e dell’impotenza che recluta i suoi “martiri”. Nel bacino delle manifestazioni proibite e delle cospirazioni silenziose.

Marco Bascetta    il manifesto 1.12.15

 

 

vedi: Francia: almeno smettiamola con le chiacchiere

Una rivoluzione culturale per salvare l’umanità

FinanzCapitalismo: il mostro che uccide la democrazia

La democrazia della paura

Nostra ipocrisia

L'Occidente globalizza la depressione

Siamo vittime di un conflitto a bassa intensità


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