Pubblichiamo un estratto della lectio magistralis tenuta da Roberta De Monticelli al Festival della Filosofia di Modena

Il Festival quest’anno ha avuto un bel coraggio. Già in poesia ci vuole coraggio a parlare d’amore. Ricordate Umberto Saba? “Amai trite parole che non uno/ osava. M’incantò la rima fiore / amore, / la più antica, difficile del mondo”. Il tema del festival, “Amare”, fu scelto in tempi in cui era ancora lecito sperare che la politica sarebbe presto tornata a essere quello che dovrebbe, quando delle istituzioni ci si può fidare. È vero, né la vita privata né la vita interiore delle persone possono fermarsi solo perché le istituzioni vivono un momento di crisi, soprattutto in un paese dove questi momenti durano interi decenni. Si può e si deve anche parlare d’altro. Ma credo che nei limiti del possibile bisogna farlo in modo che non sia come “far finta di niente”. Altrimenti noi tutti incorreremo di nuovo nella colpa che Piero Calamandrei chiamava “la cieca e dissennata assenza”. Di quelli che, quando un vigliacco imboscato vicino a Chiasso (per scappare) spedì le sue squadracce alla marcia su Roma, si tirarono da parte per far posto. E così fecero silenziosa eco al sublime Luigi Facta, ultimo presidente del Consiglio prima di Mussolini: “Nutro fiducia”.

In tempi di comparabili “nutro fiducia” sentir parlar d’amore può far l’effetto che farebbe a uno che  sta morendo avvelenato l’offerta di una torta alle meringhe. A scanso di equivoci devo chiarire cosa intendo per “comparabili”. Non intendo affatto paragonare alcuno al Duce. Intendo dire che un Parlamento che accetta di mercanteggiare sul principio dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge sta privando di ogni credibilità e di ogni autorità le istituzioni. Ed è questo che intendo per “morire avvelenati”. Non avere né accettare altra difesa dalla nostra stessa libertà (la quale nove volte su dieci non è orientata al bene comune, e nonostante questo è irrinunciabile) che quella delle regole e delle istituzioni che noi stessi ci siamo dati per porre limiti alla nostra ferinità rapace: e vedere che questa difesa non c’è più. Un Parlamento che accetta un ricatto e trasforma in negoziato politico la rivolta contro la legge. E sotto il clamore, ancora di peggio.

Un Parlamento che approva un decreto somigliante a un piè di porco: quello che serve per  scassinare la serratura della Costituzione (l’art. 138), nonostante le ragioni in contrario cui si sono  appellati mezzo milione di cittadini, che sono poi le ragioni di tutti i migliori costituzionalisti. Un governo che crede di sedere sopra la Costituzione e non sotto, un capo dello Stato che da un lato prende atto di una condanna definitiva di un cittadino, e dall’altro ritiene “legittime” le rimostranze contro magistrati e sentenza, in sede politica. E la grande stampa che commenta come se si trattasse di normale dialettica di opinioni.

È questo che chiamo veleno. La colpevole, interessata – e ancor più orrenda se inconsapevole – confusione di diritto e potere, di giurisdizione e politica, peggio, di tutto ciò che è vigente dover essere e di ciò che è dato di fatto e di forza. Il fatto dell’impunità, il fatto del delinquere e il fatto di voler continuare così, confuso con la norma di ciò che deve essere: del dovere. Il veleno peggiore è proprio questo: che la normalità di questa Repubblica sia diventata il fatto di disprezzarla, che oggi nessuno senta più nella parola “normale” il significato della norma, della normatività che diamo a noi stessi per diventare civili, e ci distingue non dalle bestie, che incivili non sono, ma dalle cosche e dalle bande di briganti. E in queste condizioni noi dovremmo parlare d’amore. Io dovrei parlare del “risveglio del cuore”. Ebbene, anche se non sembra, lo sto facendo. Sto tentando di dare espressione all’unico amore di cui io mi senta di parlare oggi senza vergognarmi: l’amor di patria. E vorrei continuare a farlo.

Saba ci aiuta. La poesia continua: “Amai la verità che giace al fondo / quasi un sogno obliato, che il  dolore / riscopre amica. Con paura il cuore / le si accosta, che più non l’abbandona”. La cognizione del dolore è la cognizione del valore. Niente ci appare più prezioso, di valore più inestimabile, di quello che rischiamo di perdere, o che abbiamo già perduto. Il dolore per la bellezza dissipata, per esempio, per lo scempio che si continua a fare dei paesaggi italiani, con una legge sull’edilizia che piace al pregiudicato e alle mafie. Ma anche il dolore per le istituzioni infangate dalla confusione di diritto e potere, di norma e forza, di legge e calcolo politico è cognizione del valore di ciò che  perdiamo. Ecco due esempi di cognizione del valore attraverso il dolore. Cognizione del valore in senso lato estetico – bellezza , e del valore in senso lato etico – giustizia. L’uno inerisce al fondamento direi esistenziale e spirituale della nostra vita, la terra che ci sostiene e ci circonda in quanto è carica di passato e di memoria, terra dei nostri padri, patria. O matria, se preferite.

L’altro fonda l’aspetto ideale della nostra convivenza, dove per “ideale” intendo appunto non ciò che è di fatto, ma ciò che dovrebbe essere, non il costume vigente, ma la norma civile, la norma prepolitica, appunto, il fondamento di una politica che non sia priva di vincoli o di limiti. E anche questo valore fa di un paese una patria: una patria ideale, appunto, una specie di sogno per noi, il sogno che era quello dei padri e delle madri o degli avi, alcuni dei quali morirono ragazzi con questo sogno in cuore…

 

Roberta De Monticelli         il Fatto Quotidiano   19 settembre 2013

 

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