intervista a Michele Gesualdi,  a cura di Osvaldo Sabato

“Per chi lo ha conosciuto bene don Lorenzo Milani continua a rimanere l’uomo del futuro,  nonostante che gli anni della morte abbiano superato quelli della vita”, dice Michele Gesualdi. A  novant’anni dalla nascita del prete di Barbiana, il 27 maggio del 1923 a Firenze (ma il destino ha  voluto che se ne andasse a 44 anni il 26 giugno 1967) quanto è ancora attuale il suo messaggio?  Michele Gesualdi fu uno dei primi sei allievi di don Milani, oggi è presidente della Fondazione che  porta il suo nome, dopo essere stato per anni sindacalista della Cisl e per due mandati presidente  della Provincia di Firenze. Chi meglio di lui avrebbe potuto raccontare la storia di don Milani, il  priore, come si faceva chiamare dai suoi scolari.  Per il novantesimo dalla nascita è in programma una mostra dal titolo «Don Lorenzo Milani e la  pittura – Dalle opere giovanili al Santo Scolaro » che sarà inaugurata il prossimo 6 giugno a Palazzo  Medici Riccardi, presso gli spazi espositivi della Provincia di Firenze: oltre 80 opere tra dipinti e  disegni, provenienti da collezioni private, di un appassionato studente realizzati all’età di 18 /20  anni, dalle lezioni del pittore Hans-Jachim Staude sino agli studi anatomici presso l’Accademia di  Brera.

Non solo. Saranno pubblicati anche scritti inediti che comprendono il carteggio con don Mazzolari,  con don Bensi che poi sarebbe diventato suo confessore e quello con monsignor Capovilla. Proprio  a lui don Milani chiese allora se il decreto del Santo Uffizio del ’58, che aveva ritirato dal  commercio il suo libro «Esperienze pastorali» e ne aveva vietate le traduzioni, potesse considerarsi  ormai superato. A questo proposito è bene ricordare che qualche anno fa la Fondazione lanciò un  appello a Papa Ratzinger per la cancellazione della condanna del Vaticano. «Ufficialmente a quella  lettera non hanno mai risposto, per vie ufficiose ci è stato detto che con la fine del Santo Uffizio non  ci sono più le sentenze emesse, però noi avremmo preferito due righe scritte», dice ora Gesualdi.

Ma oggi il pensiero va a quel prete che si dedicò agli ultimi, alla sua lezione. «Vede, io credo che il  messaggio di Don Milani non sia stato logorato dagli anni che sono passati, continua ad essere  fresco ed attuale», osserva l’ex allievo, ricordando le migliaia di scolaresche che ancora oggi  visitano la scuola di Barbiana. «Io non riesco a immaginarlo vecchio, lo immagino giovane, lui è  ancora l’uomo del presente », insiste.  Un esempio della sua bruciante attualità, spiega Gesualdi, è il libro «L’obbedienza non è più una  virtù» che comprende «Lettera ai cappellani militari» e «Lettera ai giudici»: si tratta di una forte  autodifesa del priore di Barbiana, dopo una denuncia per apologia di reato presentata da un gruppo  di ex combattenti, che criticavano i renitenti alla leva.  «Sono scritti molto attuali anche dal punto di  vista politico», commenta Gesualdi. Che aggiunge. «Lui già allora aveva messo in evidenza i guasti  della politica». Ma come avrebbe commentato quella di oggi? «Direbbe ciò che ha sempre  insegnato ai suoi ragazzi: il mondo è ingiusto, perché ci sono i primi e gli ultimi» risponde. «E lo strumento della parola e della cultura può servire a cambiare questo mondo ingiusto». È un concetto  che il sacerdote di Barbiana ha ribadito ai suoi ragazzi fino agli ultimi giorni della sua vita.

La scuola di Barbiana nacque dal nulla. «Non c’erano aule, banchi, sedie, libri, carte geografiche.  Tutto doveva essere inventato: i banchi li costruimmo noi insieme a lui, come i tavoli e le sedie,  anche le carte geografiche erano disegnate a mano con grande cura, poi diventavano strumento per  il nostro studio e per quelli che venivano dopo. Noi avevamo al massimo uno o due testi, un ragazzo  leggeva ad alta voce e don Lorenzo spiegava a tutti. Quindi fu una scuola che nacque dal niente. Ciò  dimostra che per fare cose importanti è fondamentale avere la volontà e l’intuizione che spinge il  mondo». Perché era una scuola diversa dalle altre? «A Barbiana c’erano solo figli di contadini. Don  Lorenzo arrivò in un paese dove il prete veniva ritenuto dalla parte del padrone. Trovò in quel posto  il concentrato delle ingiustizie sociali. Io credo che, influenzato e riformato da questa nuova cultura  che lui non conosceva, acquisì subito occhi, orecchie, bocca nuova, come il cuore. Ebbene, lui presto diventò lo strumento di comunicazione di quella cultura. E Lettera a una professoressa non  era altro che il confronto fra le scuole frequentate dai borghesi e la cultura del popolo. Don Lorenzo  fece la sua scuola diversa dalle altre, a partire dall’orario che era di dodici ore al giorno, una manna  per i figli dei contadini, che erano costretti a fare sedici ore di lavoro puzzolente e disagiato nelle  stalle: per loro la scuola era un grande privilegio. Fra la nostra scuola e quella di Stato erano diversi  anche gli obiettivi: la scuola statale indicava obiettivi bassi, mancava il mondo che soffre. E in  Lettera a una professoressa questo concetto di don Milani viene espresso con la frase celeberrima:  stando insieme ho imparato che uscire da soli è l’avarizia, uscire insieme è la politica».

A distanza di anni, secondo lei quale tipo di scuola ha vinto? «Secondo me Lettera a una  professoressa è stata una bella frustata nella carne viva del sistema italiano. Però bisogna dire che  poi il sistema ha messo in atto gli anticorpi e, sostanzialmente, la scuola è rimasta selettiva». Ma  che persona era don Milani? Si arrabbiava mai con voi? In che modo si faceva sentire? «Era uno  che aveva scelto, era schierato con gli ultimi, per cui tutto era finalizzato alla crescita di quel gruppo  di figli di contadini, con questa grande capacità di trasformare il particolare dei suoi ragazzi in un  ragionamento universale. Per cui noi vedevamo don Lorenzo dolcissimo con i ragazzi, molto  premuroso con questo desiderio di vederli sbocciare, crescere, per aiutarli a buttare fuori  quell’anima che Dio ha fatto uguale a quella degli altri, non abbrutita. Invece con il mondo  intellettuale e borghese era di una ferocia enorme».

 Lei ha mai assistito a qualche scontro con gli  intellettuali e i politici dell’epoca? «Quando a Barbiana venne Pietro Ingrao, fu duramente attaccato  da don Lorenzo. Poi diventarono grandi amici».  Oggi abbiamo una Chiesa con due Papi, uno dimissionario e l’altro in carica, chissà come l’avrebbe  vista don Milani… «Ricordo che quando parlava di Celestino V, il pontefice del gran rifiuto, si  diceva dispiaciuto del gesto che fece», racconta il presidente della Fondazione. Ma la Chiesa di  allora aveva compreso la missione di don Milani? «Per la verità, non l’ha capita nemmeno quella di  ora».  Un prete del mondo, che guarda al mondo: sarebbe curioso sapere, nell’epoca di Facebook Twitter, come avrebbe reagito don Milani. «Avrebbe apprezzato questi nuovi strumenti, pensi che a  noi insegnò a usare la calcolatrice», risponde sicuro Gesualdi. Quindi si potrebbe addirittura  immaginare che avrebbe aperto una pagina sui social network? «No, credo proprio di no», è la  conclusione di chi il prete di Barbiana lo ha conosciuto.

 

l’Unità      27 maggio 2013

 

VEDI: 26 giugno 2022. Morte di un maestro di educazione.

Incontro: I NOVANT'ANNI DI DON LORENZO

 

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