Più vado avanti e più mi rendo conto che le grandi parole, quelle che sono all’altezza dei nostri desideri più profondi, dei nostri concetti pin elevati, sono anche le parole pin fraudolente, portano dentro di loro un’insidia quasi invincibile. Capisco perché nel popolo ebraico c’era la prescrizione di non nominare il nome di Dio. Il nome di Dio è una di queste parole che dovrebbe essere custodita nel silenzio e noi invece ne abbiamo fatto una parola da pronunciare dovunque, a tutti gli usi, a tutti gli scopi. Capisco perché Gesù, spesso, quando parlava della resurrezione o compiva opere mirabili, faceva prescrizione ai suoi di non parlarne a nessuno perché le cose, gli eventi che sono al livello alto, che toccano perciò le fibre più profonde delle nostre attese, possono, nella promiscuità con le altre parole, deturparsi e cambiare senso. A questa legge appartengono parole come «resurrezione», come «vita» ed io sento che ogni volta che dobbiamo parlarne, dobbiamo con cautela disciogliere questa consegna del silenzio ed impegnarci a capire il perché di questa indecifrabilità, di questa impronunciabilità. Me lo dicevo proprio in questi giorni.

Noi gridiamo dai microfoni, dai video, parole che sono di quelle di cui parlavo e che rimbalzando nelle masse, attraverso i mass-media, diventano profane ed equivoche. Da una parte l’annuncio va gridato, dall’altra va taciuto. Perché questo? Proviamoci intanto a raccogliere il messaggio di oggi che è, come avete ascoltato, il messaggio della resurrezione, il messaggio della vita, di una vita che non conosce la barriera irreparabile della morte. Questo messaggio nasconde in sé una frode. La frode è che noi appoggiamo a questo messaggio tutti i nostri desideri inappagati, le nostre frustrazioni, i nostri punti di vista magari animati dal lievito impuro dell’egoi­smo. Esso ci da soddisfazione e noi crediamo; però tutto sta a sapere se questa fede non sia un prolungamen­to in più del nostro egoismo, una nuova frontiera della nostra carnalità o sia autentica fede.

Come possiamo ri­sponderci? Intanto rispettiamo le leggi interne di questo messaggio. La parola «vita», lo sappiamo, in questi tem­pi rimbalza in ogni ambiente con sensi diversi e con cariche normative diverse. Chi non è per la vita? Tutti sono per la vita e però molti sono per la vita in modo mor­tale e molti difendono accanitamente la vita spargendo sangue. E’ una parola pericolosa. Io intanto devo pren­dere atto che la resurrezione di cui si parla in queste pa­gine è una resurrezione globale che non può essere in­tesa se non mantenuta nella sua indivisibile unità e glo­balità. Nella prima lettura si parla di una liberazione di un popolo intero dal sepolcro della sua schiavitù. Le pa­role del profeta Ezechiele sono queste: «Io apro i vostri sepolcri e vi riconduco nel vostro paese». E’ resurrezio­ne! Qualcuno direbbe che è politica, in realtà è resurre­zione.

Anche la politica può produrre resurrezioni. La parola di Dio mi dice che c’è una politica secondo il sepolcro e una secondo la vita. Là dove invece ci si preoc­cupa di distinguere attentamente una lettura individua­listica della resurrezione da quella sociale e politica si cade in una frode, si spezza l’unità del messaggio il quale non può essere ricondotto in modo piatto e ideologi­co dentro i parametri delle nostre concettualizzazioni, va mantenuto nella sua trascendente ed unitaria realtà. Se non rispetto questa legge non sono più in grado di parlare della resurrezione secondo la prospettiva con­sueta, quella individuale, che è certo giusta, ma purché non venga scissa dalla totalità.

(…)

Il sepolcro non è il nostro sbocco ultimo. Questa verità è certamente mo­tivo di gioia, ma è una verità che non va mai scissa da tutte le altre verità che nell’insieme trascendono il sen­so particolaristico e si confondono con lo stesso mistero di Dio che è vita e amante della vita e il cui Spirito, come ci è ripetuto, è la forza che spezza i sepolcri. Nel­la mia prospettiva di liberazione c’è un punto d’appog­gio che è la fede in questa potenza che noi chiamiamo Spirito e che è Dio in quanto agisce nel mondo e che, come spezzò il sepolcro di Cristo fratello nostro, spez­zerà i sepolcri delle sue creature. Tuttavia, per entrare in questa certezza senza violarne il mistero, senza ap­piattirla in funzioni indebite, devo, come dicevo or ora, applicarla all’intero perimetro dove l’impero della mor­te avanza e ci assale. Questo perimetro è immenso.

La dittatura è un sepolcro ed è un sepolcro l’inedia, il vive­re senza il necessario ed è morte la solitudine, l’amore senza risposta è morte. La parola morte è una parola sintetica che abbraccia in se tutte le forme in cui l’esi­stenza è in deficit su se stessa, e vive la parabola del pro­prio estinguersi, o è ferita in legittime attese. Vorrei che il termine non rimanesse nell’astratta concettualizza­zione e che lo percepiste nella sua multilaterale realtà concreta: siamo accerchiati. La vita ha la stessa dimen­sione. Dobbiamo stare molto attenti a pronunciare que­sta parola, che ha l’ampiezza delle speranze possibili dell’uomo, per legittimare i sepolcri, per giustificare i domini, le autorità oppressive, per vincolare le coscienze nel timore. Questa nobiltà di intenzioni, se è solo formale, fa da schermo ad un’operazione di morte. Questo il dramma.

(….)

Ci vuole un di più di serietà, di autocontrollo, di spirito critico e quindi ci vuole, come dicevo agli inizi, il rispetto delle grandi parole, dei grandi messaggi. Il rispetto non significa evidentemente lasciarle nel silenzio, lasciarle nella loro intangibile santità, ma significa fare i conti con le esi­genze che esse esprimono quando osiamo pronunciar­le. Quando osiamo pronunciarle, siamo coinvolti. Non siamo dei predicatori che vanno da un luogo all’altro a dirle, lasciando poi la gente nelle sue tribolazioni appe­na si è spento il fuoco della momentanea illusione. Ogni volta che le pronunciamo, quelle parole ci coinvolgono. Se io vado tra i poveri a portare una parola di consola­zione e poi riparto lasciandoli ai loro guai, cosa ho fatto? Ho manipolato la disponibilità che ha il povero a sperare in un miracolo, ma forse ho contratto un debi­to di fronte all’umanità e di fronte a Dio.

Sono rifles­sioni sparse che riconduco ad una conclusione, quella che ci viene proposta poi dal messaggio di oggi; la no­stra speranza nella resurrezione deve attraversare l’in­tero ventaglio dei nostri impegni morali, sociali e poli­tici che caratterizzano la nostra presenza nel mondo di oggi. Dopo tutto quello che ho detto credo di poter ri­petere la parola senza scadere nella frode: noi dobbia­mo essere dalla parte della vita, noi dobbiamo dichia­rare guerra ai sepolcri e a tutti coloro che li costruisco­no e che obbediscono ad una strategia di morte.

Io sono convinto – e ogni giorno l’esperienza allarga ed ar­ricchisce la lezione – che ogni volta che noi scegliamo la logica del potere, le sue astute diplomazie che si al­largano fino ad acquistare sembianze di umanità e di bontà e legittimiamo l’oppressione di una sola coscien­za, il terrorizzare una sola coscienza – fosse pure di un bambino -, noi siamo dalla parte della morte. Questo è tanto più vero oggi, perché il confronto tra due potenze – morte e vita – si è fatto radicale e si è esteso dovun­que. Allora abbiamo anche il diritto – se posso dir così – di lasciare illuminare di una Luce il sepolcro personale che abbiamo in prospettiva. Ma questa speranza dob­biamo custodirla nel segreto e nel pudore. Per poterla gridare dobbiamo pagarla attraverso tutti i giorni della nostra vita. Allora possiamo dire: «resusciterò», ma do­po che avremo in concreto lottato contro ogni opera di morte.

Padre Ernesto Balducci,    commento alla liturgia della V domenica di Quaresima, anno A  1986 in Gli ultimi tempi  – Borla editore  2003



 

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