«Terribile ma vera». È una battuta colta al volo all’uscita dalla mostra «Hitler e i tedeschi» del Deutsches Historisches Museum di Berlino. Una lunga fila di gente attende ancora di entrare. Ma che senso ha parlare di «grande successo di pubblico» per una iniziativa che mira a mostrare senza veli e a far capire come i tedeschi normali siano stati affascinati e travolti dal loro Führer? Tutto quello che si sa, che si è letto sui libri o sentito raccontare, si dispiega ora sotto gli occhi documenti autentici, foto e filmati, riproduzioni artistiche. L’invenzione del culto di Hitler e della nomenklatura del partito, la messa in scena spettacolare del regime, l’estetizzazione della politica ma anche l’infinito kitsch del quotidiano. Il tutto esposto in un ambiente a luce soffusa, con effetti visivi efficaci e una quantità di oggetti che trasmettono una sottile sensazione di violenza all’anima. Non è la storia di Hitler (e della sua banda di criminali, come vorrebbe una favola consolatoria) ma è la storia dei tedeschi, della loro stragrande maggioranza. Della loro identificazione con il Führer. Prima le incredibili scene di entusiasmo che nascondono le brutali violenze contro gli avversari politici, poi, passo passo con i successi internazionali del regime, il montare dell’odio razziale, il sempre più profondo coinvolgimento e la totale compromissione della classe dirigente con il regime. Poi la guerra condotta con una brutalità inaudita – specialmente sul fronte orientale. Un’esperienza traumatica per milioni di uomini che assistono anche allo stermino di popolazioni inermi. L’Olocausto di tutti i giorni. Ora tutto è davanti agli occhi.È una storia raccontata tante volte, che nella mostra si dispiega implacabile con le immagini, con isuoni, le voci, le urla dei comizi e i comandi militari. È una storia che i tedeschi di oggi rivedono e ripercorrono. Nelle sale si aggirano uomini e donne di ogni età e condizione. Osservano con attenzione, ascoltano e leggono. Commentano sottovoce. I più giovani ridono, quasi sollevati, alle caricature del regime che vennero fatte allora – all’estero -, alcune di eccezionale acume. Ridono increduli davanti al grottesco di molte scene del dittatore, della sua corte e del suo popolo. Se si potessero raccogliere tutte queste reazioni e tutti i commenti fatti avremmo un eccezionale documento di come una nazione sta accettando e rielaborando criticamente – generazione dopo generazione – la sua storia. Grazie anche all’intelligenza e al coraggio della sua classe dirigente.

 Ma in questi stessi giorni un altro evento di grande interesse storiografico sul Terzo Reich riempie le pagine dei giornali e i servizi televisivi. Una commissione di storici, incaricata anni fa dal ministro degli Esteri Joschka Fischer, ha condotto a termine il suo lavoro pubblicando un volume che documenta l’intimo coinvolgimento del ministero degli Esteri del Reich nello sterminio degli ebrei. Sui giornali è apparso un documento agghiacciante nella sua banalità: il direttore dell’ufficio competente per la questione ebraica presenta il resoconto delle sue spese per una missione di lavoro in Jugoslavia motivandolo con le parole «liquidazione degli ebrei a Belgrado». Lo storico Eckhart Conze, che ha diretto la Commissione, ha detto testualmente: «Il ministero degli Esteri tedesco ha partecipato sin dall’inizio attivamente a tutte le misure di persecuzione, espulsione e annientamento degli ebrei». In questo contesto è venuta alla luce anche una lettera del maggio 1936 dell’allora segretario di Stato Ernst von Weizsäker, nella quale dichiarava di non avere obiezioni a che fosse tolta la cittadinanza tedesca a Thomas Mann per la sua «propaganda ostile all’estero contro il Reich». Von Weizsäcker (padre del futuro presidente della Repubblica Federale negli anni Ottanta) è una figura controversa che si sarebbe voluto accreditare come rappresentante di quella élite ministeriale che avrebbe tentato di frenare la politica aggressiva di Hitler. Ma, al di là della vicenda di questo personaggio, il lavoro degli storici fa definitivamente crollare il mito residuo che nello Stato hitleriano ci fossero settori relativamente integri, anche se ovviamente di sentimenti nazionalisti l’esercito, l’alta diplomazia. La storiografia professionale tedesca non si lascia più condizionare nel portare alla luce spietatamente la verità storica. Tardivamente – obietterà qualcuno -, ricordando tutti i tentativi fatti in questa direzione nei decenni scorsi tra mille difficoltà e ostacoli, intimidazioni ed emarginazioni accademiche. Anche se non manca chi mostra ancora stupore, incredulità, irritazione di fronte all’ultima irrefutabile documentazione, la classe politica e intellettuale tedesca, nel suo complesso, sembra non aver più bisogno di nascondere, ritoccare, eludere, ingannare o ingannarsi sulla propria storia – come hannofatto le classi dirigenti di decenni or sono, soprattutto nel primo ventennio della Bundesrepublik. È un bel segnale anche per l’Europa.


Gian Enrico Rusconi    La Stampa  29 ottobre 2010


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